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Il Santo del giorno

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Messaggio  Mareluna Ven Dic 09, 2011 1:47 pm

la nostra statua dell'immacolata è unica, ne ho viste in giro ma bella cosi no, ha uno sguardo che ti cattura.
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Messaggio  dirramatore Ven Dic 09, 2011 9:14 pm

Grazie Elio per aver modificato i caratteri del post precedente!!
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Messaggio  Elio Dom Dic 11, 2011 1:47 pm

III domenica di Avvento
La gioia per Sion

L'invito alla gioia caratterizza le letture di questa domenica. L'immagine-guida è la santa città di Sion, rinnovata dall'amore di Dio: Egli appare in questa domenica non solo come il Padre, ma anche come lo Sposo. Siamo introdotti, dunque, nel cuore dell'attesa credente: ciò che si attende non è semplicemente un "risultato" (come potrebbe essere la trasformazione del mondo, la felicità, la pace, la serenità?), ma una relazione, un rapporto di amore che giunge alla sua pienezza.Sion diventa così immagine delle comunità cristiane, chiamate ad essere oasi di gioia in un mondo agitato dalla insoddisfazione, sempre alla ricerca di espedienti per evadere. Sion diventa immagine di una possibile comunità umana, in cui la giustizia possa avere uno spazio sempre più grande.


Altri Santi del giorno

Savino, vescovo di Piacenza (V sec.);
beato Girolamo da sant'Angelo in Vado (1410-1468).
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Messaggio  Elio Lun Dic 12, 2011 12:11 pm

IL SANTO DEL GIORNO

Santi Epimarco e Alessandro

Epimaco e di Alessandro, cristiani di Alessandria, in Egitto, furono arrestati e processati al tempo delle persecuzioni di Decio, cioè nell'anno 250. Secondo la Passio a loro attribuita, i due cristiani, ostinandosi a confessare la propria fede e a negare il sacrificio all'Imperatore, vennero rinchiusi in un orrido carcere, avvinti da pesanti catene. Ne furono tratti fuori per subire rinnovati tormenti, dopo di che, perdurando i due nel rifiutarsi all'apostasia, Epimaco e Alessandro furono gettati, si narra, in una fossa piena di calce viva, che soffocò la loro vita e consumò i loro corpi. Questo avveniva, come abbiamo detto, nell'anno 250, e la data del martirio, secondo lo storico Eusebio da Cesarea, sarebbe stata il 12 dicembre, giorno nel quale cade perciò la memoria di Epimaco e Alessandro Martiri. Le reliquie del primo, cioè di Sant'Epimaco, furono in seguito portate a Roma, e deposte in un sepolcro sotterraneo. E qui la vicenda del Martire di Alessandria si lega a quella di un Martire di Roma, Gordiano, giudice di tribunale al tempo dell'Imperatore Giuliano l'Apostata, cioè verso il 360. Quando si aprì la nuova persecuzione dell'Imperatore apostata, l'inevitabile crisi si produsse. Il giudice Gordiano, testimone immediato della rinnovata fermezza e pazienza dei cristiani, saltò dall'altra parte del fosso, convertendosi e unendosi ai perseguitati. Denunziato dopo il Battesimo, venne a sua volta processato, condannato, e decapitato nell'anno 362. Come sepoltura per il suo corpo, venne scelto proprio il sotterraneo dove riposavano, da tempo, le reliquie del Martire Epimaco, così che i nomi del giudice romano e del cristiano di Alessandria, vissuti a distanza di più di un secolo, vennero riuniti in coppia, facendosi memoria di loro il 10 maggio, benché il sant'Epimaco di maggio sia lo stesso personaggio ricordato in dicembre, con sant'Alessandro. La storia dei due martiri, o meglio del loro culto, ha un seguito dopo un altro salto di secoli, perché la Regina Ildegarda, sposa di Carlo Magno, ottenne nel 774 parte delle loro reliquie, che fece trasportare nell'abbazia di Kempten, in Germania, di cui sono ancora i principali Patroni.
I loro resti rimasti a Roma si trovano oggi nella Basilica di San Giovanni in Laterano, sotto l'altare del Presepio, mentre Gordiano - questa volta solo, senza Epimaco - è uno dei patroni della città di Palestrina, presso Roma. (Paola Bergamini)
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Messaggio  Elio Mar Dic 13, 2011 2:38 pm

Re: IL SANTO DEL GIORNO
Attilio Citrino Oggi a 12:33

.Santa Lucia Vergine e martire
La vergine e martire Lucia è una delle figure più care alla devozione cristiana. Come ricorda il Messale Romano è una delle sette donne menzionate nel Canone Romano. Vissuta a Siracusa, sarebbe morta martire sotto la persecuzione di Diocleziano (intorno all'anno 304). Gli atti del suo martirio raccontano di torture atroci inflittele dal prefetto Pascasio, che non voleva piegarsi ai segni straordinari che attraverso di lei Dio stava mostrando. Proprio nelle catacombe di Siracusa, le più estese al mondo dopo quelle di Roma, è stata ritrovata un'epigrafe marmorea del IV secolo che è la testimonianza più antica del culto di Lucia. Una devozione diffusasi molto rapidamente: già nel 384 sant'Orso le dedicava una chiesa a Ravenna, papa Onorio I poco dopo un'altra a Roma. Oggi in tutto il mondo si trovano reliquie di Lucia e opere d'arte a lei ispirate.
Gli atti del martirio di Lucia di Siracusa sono stati rinvenuti in due antiche e diverse redazioni: l’una in lingua greca il cui testo più antico risale al sec. V (allo stato attuale delle ricerche); l’altra, in quella latina, riconducibile alla fine del sec. V o agli inizi del sec. VI ma comunque anteriore al sec. VII e che di quella greca pare essere una traduzione.
La più antica redazione greca del martirio contiene una leggenda agiografica edificante, rielaborata da un anonimo agiografo due secoli dopo il martirio sulla tradizione orale e dalla quale è ardua impresa sceverare dati storici. Infatti, il documento letterario vetustiore che ne tramanda la memoria è proprio un racconto del quale alcuni hanno messo addirittura in discussione la sua attendibilità. Si è giunti così, a due opposti risultati: l’uno è quello di chi l’ha strenuamente difesa, rivalutando sia la storicità del martirio sia la legittimità del culto; l’altro è quello di chi l’ha del tutto biasimata, reputando la narrazione una pura escogitazione fantasiosa dell’agiografo ma non per questo mettendo in discussione la stessa esistenza storica della v. e m., come sembrano comprovare le numerose attestazioni devozionali, cultuali e culturali in suo onore.
Sia la redazione in greco sia quella in latino degli atti del martirio hanno avuto da sempre ampia e ben articolata diffusione, inoltre entrambe si possono considerare degli archetipi di due differenti ‘rami’ della tradizione: infatti, dal testo in greco sembrano derivare numerose rielaborazioni in lingua greca, quali le Passiones più tardive, gli Inni, i Menei, ecc.; da quello in latino sembrano, invece, mutuare le Passiones metriche, i Resumé contenuti nei Martirologi storici, gli Antifonari, le Epitomi comprese in più vaste opere, come ad es. nello Speculum historiale di Vincenzo da Beauvais o nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze.
I documenti rinvenuti sulla Vita e sul martirio sono vicini al genere delle passioni epiche in quanto i dati attendibili sono costituiti solo dal luogo e dal dies natalis. Infatti, negli atti greci del martirio si riscontrano elementi che appartengono a tutta una serie di composizioni agiografiche martiriali, come ad es. l’esaltazione delle qualità sovrumane della martire e l’assenza di ogni cura per l’esattezza storica. Tuttavia, tali difetti, tipici delle passioni agiografiche, nel testo greco di Lucia sono temperate e non spinte all’eccesso né degenerate nell’abuso. Proprio questi particolari accostano gli atti greci del martirio al genere delle passioni epiche.
Sul piano espositivo l’andamento è suggestivo ed avvincente, non mancando di trasmettere al lettore emozioni e resoconti agiografici inconsueti attraverso un racconto che si snoda su un tessuto narrativo piuttosto ricco di temi e motivi di particolare rilievo: il pellegrinaggio alla tomba di Agata (con il conseguente accostamento Agata/Lucia e Catania/Siracusa); il sogno, la visione, la profezia e il miracolo; il motivo storico; l’integrità del patrimonio familiare; la lettura del Vangelo sull’emorroissa; la vendita dei beni materiali, il Carnale mercimonium e la condanna alla prostituzione. Infatti è stretta la connessione tra la dissipazione del patrimonio familiare e la prostituzione per cui la condanna al postrìbolo rappresenta una legge di contrappasso sicché la giovane donna che ha dilapidato il patrimonio familiare è ora condannata a disperdere pure l’altro patrimonio materiale, rappresentato dal proprio corpo attraverso un’infamante condanna, direttamente commisurata alla colpa commessa; infine, la morte.
Il martirio incomincia con la visita di Lucia assieme alla madre Eutichia, al sepolcro di Agata a Catania, per impetrare la guarigione dalla malattia da cui era affetta la madre: un inarrestabile flusso di sangue dal quale non era riuscita a guarire neppure con le dispendiose cure mediche, alle quali si era sottoposta. Lucia ed Eutichia partecipano alla celebrazione eucaristica durante la quale ascoltano proprio la lettura evangelica sulla guarigione di un’emorroissa. Lucia, quindi, incita la madre ad avvicinarsi al sepolcro di Agata e a toccarlo con assoluta fede e cieca fiducia nella guarigione miracolosa per intercessione della potente forza dispensatrice della vergine martire. Lucia, a questo punto, è presa da un profondo sonno che la conduce ad una visione onirica nel corso della quale le appare Agata che, mentre la informa dell’avvenuta guarigione della madre le predice pure il suo futuro martirio, che sarà la gloria di Siracusa così come quello di Agata era stato la gloria di Catania. Al ritorno dal pellegrinaggio, proprio sulla via che le riconduce a Siracusa, Lucia comunica alla madre la sua decisione vocazionale: consacrarsi a Cristo! A tale fine le chiede pure di potere disporre del proprio patrimonio per devolverlo in beneficenza. Eutichia, però, non vuole concederle i beni paterni ereditati alla morte del marito, avendo avuto cura non solo di conservarli orgogliosamente intatti e integri ma di accrescerli pure in modo considerevole. Le risponde, quindi, che li avrebbe ereditati alla sua morte e che solo allora avrebbe potuto disporne a suo piacimento. Tuttavia, proprio durante tale viaggio di ritorno, Lucia riesce, con le sue insistenze, a convincere la madre, la quale finalmente le da il consenso di devolvere il patrimonio paterno in beneficenza, cosa che la vergine avvia appena arrivata a Siracusa. Però, la notizia dell’alienazione dei beni paterni arriva subito a conoscenza del promesso sposo della vergine, che se ne accerta proprio con Eutichia alla quale chiede anche i motivi di tale imprevista quanto improvvisa vendita patrimoniale. La donna gli fa credere che la decisione era legata ad un investimento alquanto redditizio, essendo la vergine in procinto di acquistare un vasto possedimento destinato ad assumere un alto valore rispetto a quello attuale al momento dell’acquisto e tale da spingerlo a collaborare alla vendita patrimoniale di Lucia. In seguito il fidanzato di Lucia, forse esacerbato dai continui rinvii del matrimonio, decide di denunciare al governatore Pascasio la scelta cristiana della promessa sposa, la quale, condotta al suo cospetto è sottoposta al processo e al conseguente interrogatorio. Durante l’agone della santa e vittoriosa martire di Cristo Lucia, emerge la sua dichiarata e orgogliosa professione di fede nonché il disprezzo della morte, che hanno la caratteristica di essere arricchiti sia di riflessioni dottrinarie sia di particolari sempre più cruenti, man mano che si accrescono i supplizi inflitti al fine di esorcizzare la v. e m. dalla possessione dello Spirito santo. Dopo un interrogatorio assai fitto di scambi di battute che la vergine riesce a contrabbattere con la forza e la sicurezza di chi è ispirato da Cristo, il governatore Pascasio le infligge la pena del postrìbolo proprio al fine di operare in Lucia una sorta di esorcismo inverso allontanandone lo Spirito santo. Mossa dalla forza di Cristo, la vergine Lucia reagisce con risposte provocatorie, che incitano Pascasio ad attuare subito il suo tristo proponimento. La vergine, infatti, energicamente gli dice che, dal momento che la sua mente non cederà alla concupiscenza della carne, quale che sia la violenza che potrà subire il suo corpo contro la sua volontà, ella resterà comunque casta, pura e incontaminata nello spirito e nella mente. A questo punto si assiste ad un prodigioso evento: la vergine diventa inamovibile e salda sicché, nessun tentativo riesce a trasportarla al lupanare, nemmeno i maghi appositamente convocati dallo spietato Pascasio. Esasperato da tale straordinario evento, il cruento governatore ordina che sia bruciata, eppure neanche il fuoco riesce a scalfirla e Lucia perisce per spada! Sicché, piegate le ginocchia, la vergine attende il colpo di grazia e, dopo avere profetizzato la caduta di Diocleziano e Massimiano, è decapitata.
Pare che Lucia abbia patito il martirio nel 304 sotto Diocleziano ma vi sono studiosi che propendono per altre datazioni: 303, 307 e 310. Esse sono motivate dal fatto che la profezia di Lucia contiene elementi cronologici divergenti che spesso non collimano fra loro: per la pace della chiesa tale profezia si dovrebbe riferire al primo editto di tolleranza nei riguardi del cristianesimo e quindi sarebbe da ascrivere al 311, collegabile, cioè, all’editto di Costantino del 313; l’abdicazione di Diocleziano avvenne intorno al 305; la morte di Massimiano avvenne nel 310. È, invece, accettata dalla maggioranza delle fonti la data relativa al suo dies natalis: 13 dicembre. Eppure, il Martirologio Geronimiano ricorda Lucia di Siracusa in due date differenti: il 6 febbraio e il 13 dicembre. L’ultima data ricorre in tutti i successivi testi liturgici bizantini e occidentali, tranne nel calendario mozarabico, che la celebra, invece, il 12 dicembre. Nel misterioso calendario latino del Sinai il dies natalis di Lucia cade l’8 febbraio: esso fu redatto nell’Africa settentrionale e vi è presente un antico documento della liturgia locale nel complesso autonoma sia dalla Chiesa di Costantinopoli che da quella di Roma, pur rivelando fonti comuni al calendario geronimiano.
Assai diffusa è a tutt’oggi la celebrazione del culto di Lucia quale santa patrona degli occhi. Ciò sembra suffragato anche dalla vasta rappresentazione iconografica, che, tuttavia, è assai variegata, in quanto nel corso dei secoli e nei vari luoghi si è arricchita di nuovi simboli e di varie valenze. Ma è stato sempre così? Quando nasce in effetti questo patronato e perché? Dal Medioevo si va sempre più consolidando la taumaturgia di Lucia quale santa patrona della vista e dai secc. XIV-XV si fa largo spazio un’innovazione nell’iconografia: la raffigurazione con in mano un piattino (o una coppa) dove sono riposti i suoi stessi occhi. Come si spiega questo tema? È, forse, passato dal testo orale all’iconografia? Oppure dall’iconografia all’elaborazione orale? Quale l’origine di un tale patronato? Esso è probabilmente da ricercare nella connessione etimologica e/o paretimologica di Lucia a lux, molto diffusa soprattutto in testi agiografici bizantini e del Medioevo Occidentale. Ma, quali i limiti della documentazione e quali le cause del proliferare della tradizione relativa all’iconografia di Lucia, protettrice della vista? Si può parlare di dilatazione dell’atto di lettura nell’immaginario iconografico, così come in quello letterario? E tale dilatazione nei fenomeni religiosi è un atto di devozione e fede? È pure vero che la semantica esoterica data al nome della v. e m. di Siracusa è la caratteristica che riveste, accendendola di intensa poesia, la figura e il culto di Lucia, la quale diventa, nel corso dei secoli e nei vari luoghi una promessa di luce, sia materiale che spirituale. E proprio a tale fine l’iconografia, già a partire dal sec. XIV, si fa interprete e divulgatrice di questa leggenda, raffigurando la santa con simboli specifici e al tempo stesso connotativi: gli occhi, che Lucia tiene in mano (o su un piatto o su un vassoio), che si accompagnano sovente alla palma, alla lampada (che è anche uno dei simboli evangelici più diffuso e più bello, forse derivato dall’arte sepolcrale) e, meno frequenti, anche ad altri elementi del suo martirio, come ad es. il libro, il calice, la spada, il pugnale e le fiamme. È anche vero che le immagini religiose possono essere intese sia come ritratti che come imitazione ma non bisogna dimenticare che prima dell’età moderna sono mancati riferimenti ai suoi dati fisiognomici, per cui gli artisti erano soliti ricorrere alla letteratura agiografica il cui esempio per eccellenza è proprio la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, che rappresenta il testo di riferimento e la fonte di gran parte dell’iconografia religiosa. In tale opera il dossier agiografico di Lucia -che si presenta come un testo di circa tre pagine di lunghezza- è preceduto da un preambolo sulle varie valenze etimologiche e semantiche relative all’accostamento Lucia/luce: Lucia è un derivato di luce esteso anche al valore simbolico via Lucis, cioè cammino di luce.
I genitori di Lucia, essendo cristiani, avrebbero scelto per la figlia un nome evocatore della luce, ispirandosi ai molti passi neotestamentari sulla luce. Tuttavia, il nome Lucia in sé non è prerogativa cristiana, ma è anche il femminile di un nome latino comune e ricorrente tra i pagani. Se poi Lucia significhi solo «luce» oppure più precisamente riguarda i «nati al sorger della luce (cioè all'alba)», rivelando nel contempo anche un dettaglio sull'ora di nascita della santa, è a tutt’oggi, un problema aperto. Forse la questione è destinata a restare insoluta? Il problema si complica se poi si lega il nome di Lucia non al giorno della nascita ma a quello della morte (=dies natalis): il 13 dicembre era, effettivamente, la giornata dell'anno percentualmente più buia. Per di più, intorno a quella data, il paganesimo romano festeggiava già una dea di nome Lucina. Queste situazioni hanno contribuito ad alimentare varie ipotesi riconducibili, tuttavia, a due filoni: da un lato quello dei sostenitori della teoria, secondo la quale tutte le festività cristiane sarebbero state istituite in luogo di preesistenti culti pagani, vorrebbero architettata in tale modo anche la festa di Lucia (come già quella di Agata). Per i non credenti tale discorso può anche essere suggestivo e accattivante, trovando terreno fertile. Da qui a trasformare la persona stessa di Lucia in personaggio immaginifico, mitologico, leggendario e non realmente esistito, inventato dalla Chiesa come calco cristiano di una preesistente divinità pagana, il passo è breve (persino più breve delle stesse già brevi e pallide ore di luce di dicembre!). Dall’altro lato quello dei credenti,secondo i quali, invece, antichi e accertati sono sia l’esistenza sia il culto di Lucia di Siracusa, che rappresenta così una persona storicamente esistita, morta nel giorno più corto dell'anno e che riflette altresì il modello femminile di una giovane donna cristiana, chiamata da Dio alla verginità, alla povertà e al martirio, che tenacemente affronta tra efferati supplizi.
Nel Breviario Romano Tridentino, riformato da papa Pio X (ed. 1914), che prima di salire al soglio pontificio era patriarca di Venezia, è menzionata la traslazione delle reliquie di Lucia alla fine della lettura agiografica, così come ha evidenziato Andreas Heinz nel suo recente contributo.
A Siracusa un’inveterata tradizione popolare vuole che, dopo avere esalato l’ultimo respiro, il corpo di Lucia sia stato devotamente tumulato nello stesso luogo dell martirio. Infatti, secondo la pia devozione dei suoi concittadini, il corpo della santa fu riposto in un arcosolio, cioè in una nicchia ad arco scavata nel tufo delle catacombe e usata come sepolcro. Fu così che le catacombe di Siracusa, che ricevettero le sacre spoglie della v. e m., presero da lei anche il nome e ben presto attorno al suo sepolcro si sviluppò una serie numerosa di altre tombe, perché tutti i cristiani volevano essere tumulati accanto all’amatissima Lucia. Ma, nell'878 Siracusa fu invasa dai Saraceni per cui i cittadini tolsero il suo corpo da lì e lo nascosero in un luogo segreto per sottrarlo alla furia degli invasori. Ma, fino a quando le reliquie di Lucia rimasero a Siracusa prima di essere doppiamente traslate (da Siracusa a Costantinopoli e da Costantinopoli a Venezia)? Fino al 718 o fino al 1039? È certo che a Venezia il suo culto era già attestato dal Kalendarium Venetum del sec. XI, nei Messali locali del sec. XV, nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove era considerata festa di palazzo, cioè festività civile. Durante la crociata del 1204 i Veneziani lo trasportarono nel monastero di San Giorgio a Venezia ed elessero santa Lucia compatrona della città. In seguito le dedicarono pure una grande chiesa, dove il corpo fu conservato fino al 1863, quando questa fu demolita per la costruzione della stazione ferroviaria (che per questo si chiama Santa Lucia); il corpo fu trasferito nella chiesa dei SS. Geremia e Lucia, dove è conservato tutt’oggi.

La duplice traslazione delle reliquie di Lucia è attestata da due differenti tradizioni.

La prima tradizione risale al sec. X ed è costituita da una relazione, coeva ai fatti, che Sigeberto di Gembloux († 1112) inserì nella biografia di Teodorico, vescovo di Metz. Tale relazione tramanda che il vescovo Teodorico, giungendo in Italia insieme all’imperatore Ottone II, abbia trafugato molte reliquie di santi –fra cui anche quella della nostra Lucia- che allora erano nell’Abruzzo e precisamente a Péntima (già Corfinium). La traslazione a Metz delle reliquie di Lucia pare suffragata dagli Annali della città dell’anno 970 d.C. Ma alcuni dubbi sembrano non avere risposte attendibili: Come e perché Faroaldo ripose le reliquie o le spoglie di Lucia a Corfinium? Furono traslate le reliquie o tutto il corpo della martire? Il vescovo locale si prestò ad un inganno (pio e devoto?) o diceva il vero? Se è ravvisabile un fondo di verità nel racconto del vescovo, allora si potrebbe desumere che le reliquie o il corpo della martire furono traslate da Siracusa nel 718 (quindi fino al 718 sarebbero rimaste a Siracusa?). Cosa succedeva allora nella città siciliana? Sergio, governatore della Sicilia, si era ribellato all’imperatore Leone III l’Isaurico e pertanto era stato costretto a fuggire da Siracusa e a rifugiarsi da Romualdo II, duca longobardo di Benevento. Se questa tradizione è attendibile, si può forse pensare che il vescovo di Corfinium (o piuttosto Sigeberto? Oppure altresì la sua fonte?) abbia confuso Romualdo (che proprio in quel periodo era duca di Spoleto e che, come tale, godeva di una fama maggiore) con Faroaldo? E ancora, lo stesso Sigeberto di Gembloux riferisce che Teoderico nel 972 abbia innalzato un altare in onore di Lucia e che nel 1042 un braccio della v. e m. sia stato donato al monastero di Luitbourg. Quindi, antichi documenti attestano che di fatto vi fu una traslazione delle reliquie di Lucia dall’Italia centrale a Metz, sulla frontiera linguistica romano-germanica, nella provincia di Treviri. Situata fra Germania e Francia, questa regione è anche il paese d’origine della dinastia carolingia. È una casualità? Come andarono effettivamente le cose? Secondo Sigeberto di Gembloux l’imperatore Ottone II sostò in Italia nel 970, avendo tra la sua scorta il vescovo Teodorico di Metz, il quale, durante il suo soggiorno, acquistava preziose reliquie, allo scopo di accrescere la fama della sua città vescovile. Pare che uno dei suoi preti, di nome Wigerich, che era anche cantore nella cattedrale di Metz, abbia rinvenuto le reliquie di Lucia di Siracusa, a Corfinium, poi identificata con Péntima in Abruzzo. Si dice che tali reliquie erano state prelevate dai Longobardi e trasportate da Siracusa al ducato di Spoleto. Ma perché questo spostamento? In un primo tempo le reliquie di Lucia, dopo essere state acquistate dal vescovo Teodorico di Metz, il quale aveva portato dall’Italia anche il corpo del martire Vincenzo, furono tumulate assieme alle reliquie di quest’ultimo al quale il vescovo aveva fatto erigere un’abbazia sull’isola della Mosella, dove nel 972 uno dei due altari della chiesa dell’abbazia, fu dedicato proprio a Lucia, come patrona. Sigeberto ricorda pure che Teodorico di Metz, in presenza di due vescovi di Treviri e precisamente di Gerard di Toul e di Winofid di Verdun, abbia dedicato a Lucia un oratorio nello stesso anno. Non solo, ma tanta e tale era dunque la devozione di Teodorico di Metz per la v. e m. di Siracusa che fece tumulare il conte Everardo, suo giovane nipote, prematuramente scomparso alla tenera età di soli dieci anni, proprio innanzi all’altare di Lucia. Per tutto il tempo in cui le spoglie di Lucia rimasero nella chiesa dell’abbazia di S. Vincenzo nella Mosella, la v. e m. di Siracusa fu implorata durante i giorni delle Regazioni, con una grande processione della cittadinanza di Metz che si fermò proprio nell’abbazia di S. Vincenzo. Così Metz divenne il fulcro da cui si irradiò ben presto il culto di Lucia tanto che già nel 1042 l’imperatore Enrico III reclamò alcune reliquie della v. e m. di Siracusa per il convento nuovamente fatto erigere dalla sua famiglia nella diocesi di Speyer e precisamente a Lindeburch/Limburg.

La seconda tradizione è, invece, tramandata da Leone Marsicano e dal cronista Andrea Dandolo di Venezia. Leone Marsicano racconta che nel 1038 il corpo di Lucia, vegine e martire, fu trafugato da Giorgio Maniace e traslato a Costantinopoli in una teca d’argento. Andrea Dandolo, esponendo la conquista di Costantinopoli del 1204 da parte dei Crociati, tra i quali militava anche Enrico Dandolo, un suo illustre antenato e doge di Venezia, informa che i corpi di Lucia e Agata erano stati traslati dalla Sicilia a Costantinopoli ma che quello di Lucia fu poi nuovamente traslato da Costantinopoli a Venezia, dove pare che di fatto giunse il 18 gennaio 1205. Quindi, la traslazione delle reliquie di Lucia a Venezia da Costantinopoli sembra legata agli eventi della Quarta Crociata (quella riconducibile al periodo che va dal 1202 al 1204), quando i cavalieri dell’Occidente latino, piuttosto che liberare la Terrasanta, spogliarono la metropoli dell’Oriente cristiano. Infatti, nel 1204, in seguito alla profanazione e al saccheggio dei crociati nelle basiliche di Bisanzio, neanche la chiesa in cui riposava il corpo di Lucia fu risparmiata da questa oltraggiosa strage tanto che furono pure rimosse le sue spoglie e contese le sue reliquie, molto venerate nell’Oriente ortodosso. Pare che, proprio in tale occasione Venezia, che aveva condotto la Quarta Crociata presso il Santo Sepolcro, si impadronì delle reliquie di Lucia, che giunsero, come si diceva, sulla laguna - nella chiesa di S. Giorgio Maggiore- il 18 gennaio 1205 e cioè ancora prima della costruzione della basilica del Palladio e dell’attuale Palazzo Ducale. Il corpo di Lucia fu riposto nel monastero benedettino, dove aveva soggiornato il monaco Gerardo (o Sagredo?). Sembra che il tragico evento del 13 dicembre del 1279 (cioè una bufera scatenatasi all’improvviso, che provocò molte vittime) sia stato la causa di una nuova traslazione del corpo di Lucia dalla chiesa di S. Giorgio Maggiore a Venezia (eccetto, pare, un pollice -non un braccio, come vuole la communis opinio- che sarebbe rimasto in San Giorgio). Dopo tale tragedia, infatti, le autorità decisero di traslare il corpo di Lucia in città, ponendolo in una chiesa parrocchiale a lei intitolata e ciò allo scopo di agevolare a piedi il pellegrinaggio alle sue sacre spoglie in terraferma senza dovere ricorrere ad imbarcazioni. Quindi, nel mese seguente alla sciagura e precisamente il 18 gennaio del 1280 (lo stesso giorno della memoria dell’arrivo delle sacre spoglie di Lucia da Costantinopoli), il suo corpo fu traslato nella chiesa dedicatale, che si trovava nello stesso luogo in cui era ubicata la stazione ferroviaria che, ancora oggi ne conserva la memoria nel nome e precisamente sulle fondamenta prospicienti il Canal Grande e cioè all’inizio del sestiere di Cannareggio. Tale chiesa fu poi riedificata nel 1313 e fu assegnata dal papa Eugenio IV nel 1444 in commenda alle suore domenicane, che avevano aperto il loro convento intitolato al Corpus Domini, un cinquantennio prima sempre a Cannareggio. Nel 1476, dopo circa un trentennio di contese, si raggiunse un accordo tra le monache domenicane del convento del Corpus Domini e quelle agostiniane del monastero dell’Annunziata proprio per il possesso del corpo di Lucia: papa Sisto IV nel 1478 stabilì, con un solenne diploma, che il corpo della santa rimanesse nella chiesa a lei intestata sotto la giurisdizione delle agostiniane del monastero dell’Annunziata (che da allora prese il nome di monastero di S. Lucia), le quali ogni anno avrebbero offerto la somma di 50 ducati alle monache domenicane del convento del Corpus Domini. Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’imperatrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omaggio di una reliquia di s. Lucia pertanto, con l’assistenza del patriarca Giovanni Trevisan fu asportata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della v. e m. Il 28 luglio del 1806 per decreto vicereale il monastero di Santa Lucia fu soppresso e le monache agostiniane costrette a trasferirsi al di là del Canal Grande e precisamente nel monastero di S. Andrea della Girada, dove portarono pure il corpo di Lucia. Nel 1807 il governo vicereale concesse alle agostiniane di S. Lucia di far ritorno nel loro antico convento, che, tuttavia, trovarono occupato dalle agostiniane di Santa Maria Maddalena, le quali si fusero con quelle di S. Lucia, assumendone anche il titolo. Nel 1810 Napoleone Bonaparte decretò la chiusura di tutti i monasteri e conventi, compreso quello di S. Lucia, le cui monache furono pure obbligate a deporre l’abito monastico e a rientrare nella propria famiglia di appartenenza. Il corpo di Lucia rimase nella sua chiesa, che fu così inserita nella circoscrizione della parrocchia di S. Geremia. Nel 1813 il convento di S. Lucia era donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Canossa, che vi abitò fino al 1846, quando iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Fra il 1844 e il 1860 il governo austriaco realizzò la costruzione del ponte ferroviario, che doveva giungere fino alle fondamenta di Cannareggio e cioè proprio là dove da secoli allogavano i monasteri delle domenicane del Corpus Domini e delle agostiniane di Santa Lucia, poi abbattuti. Il corpo di Lucia l’11 luglio 1860 subì, quindi, una nuova traslazione nella parrocchia di S. Geremia, per volere del patriarca Angelo Ramazzotti: il sacro corpo rimase sette giorni sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, fu inauguata: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Per la generosità di mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo assunse la denominazione SS. Geremia e Lucia) su disegno dell’arch. Gaetano Rossi fu allestito un altare più degno in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Quindi, dal 1860 Pio IX l'avrebbe fatto trasferire nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia, dove si venera a tutt’oggi. Qui, la cappella del corpo di santa Lucia è assai bella e artistica proprio come tutte le chiese di Venezia, adorna di marmi e di bronzi, ed è sempre stata oggetto di particolari cure ed elevata devozione di fedeli sempre più numerosi. Il sacro corpo, elevato sopra l'altare, è conservato in una elegante urna di marmi preziosi, superbamente abbellita da pregiate decorazioni e sormontata dalla stupenda statua della v. e m. Sulla parete di sfondo si leggono due iscrizioni, che raccontano le vicende della traslazione e delle principali solenni festività. Il 15 giugno del 1930 il patriarca Pietro La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incorrotto di Lucia nella nuova urna in marmo giallo ambrato. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli -divenuto poi papa con il nome di Giovanni XXIII- volendo che fosse conferita più importanza alle sacre reliquie di Lucia, suggerì che le sacre spoglie fossero ricoperte di una maschera d’argento, curata dal parroco Aldo Da Villa. Nel 1968, per iniziativa del parroco Aldo Fiorin fu portato a compimento un completo restauro della Cappella e dell’Urna della v. e m. Ancor oggi le sacre reliquie riposano nel tempio di Venezia e nella bianca curva absidale si legge un inciso propiziatorio: Vergine di Siracusa martire di Cristo in questo tempio riposa all’Italia al mondo implori luce e pace. Ma, il 4 aprile 1867 le spoglie di Lucia furono disgraziatamente profanate dai ladri (subito arrestati), che furtivamente si erano introdotti nella chiesa di S. Geremia, per impadronirsi degli ornamenti votivi. Da allora seguirono altre profanazioni e spoliazioni: nel 1949, quando alla martire fu sottratta la corona (anche in questo caso il ladro fu arrestato) e nel 1969, quando due ladri infransero il cristallo dell’urna. Nel 1975 papa Giovanni Paolo I concesse che il corpo della martire fosse portato ed esposto alla venerazione dei fedeli nella diocesi di Pesaro per una settimana. Il 7 novembre 1981 due aggressori spezzarono l’urna della martire estraendovi il corpo e lasciandovi il capo e la maschera argentea. Anche questa volta il corpo fu recuperato proprio il 12 dicembre del 1981, giorno della vigilia della commemorazione della santa.

Esiste una variante sulla traslazione del corpo di Lucia a Venezia, documentata da un codice del Seicento, o Cronaca Veniera, conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 = 8607, f. 15 v.): esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non conosciamo l’origine della notizia nè se derivi da una fonte anteriore. E’ diffuso, invece, il fondato sospetto di un errore meccanico di amanuense, che avrebbe letto 1026 invece di 1206, cioè gli anni dell’effettiva translatio. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, legando il fatto al doge dell’epoca. La presenza del corpo di Lucia a Venezia sin dal 1026 è una notizia che va accolta con prudenza? Tra il 1167 e il 1182 a Venezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire, come attestato da documenti locali.

Una delle più antiche tradizioni veronesi racconta che le spoglie della santa siracusana passarono da Verona durante il loro viaggio verso la Germania intorno al sec. X, fatto che spiegherebbe anche la diffusione del culto della santa sia a Verona che nel nord Europa. Secondo un’altra tradizione, il culto di santa Lucia a Verona risalirebbe al periodo di dominio della Serenissima su Verona. Secondo la communis opinio, Venezia infatti, già nel 1204, avrebbe trasportato le spoglie della santa nella città lagunare.

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Messaggio  Lux Mar Dic 13, 2011 11:15 pm

Grazie Elio per aver ripreso questo post, non riesco ad aggiornarlo, ho troppi impegni in questo periodo, ancora grazie!!
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Messaggio  Elio Mar Dic 13, 2011 11:29 pm

Adesso sono libero e posso aggiornarlo ma poi bho
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Messaggio  Lux Mar Dic 13, 2011 11:32 pm

va bene, quando puoi, te ne siamo grati
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Messaggio  Elio Mar Dic 13, 2011 11:36 pm

Lo faccio con piacere
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Messaggio  Elio Mer Dic 14, 2011 10:57 am

San Giovanni della Croce

Juan de Yepes, nacque a Fontiveros, tra Salamanca e Avila, nella vecchia Castiglia, nel 1542. Il padre, Gonzalo de Yepes, era un nobile di origine toledana, diseredato dai ricchi genitori per aver voluto sposare Caterina Alvarez, orfana e povera. La famiglia nacque nella povera casetta della donna, tessitrice, dove il padre apprese l'umile mestiere della moglie per tirare avanti. Ultimo di tre figli, Juan perderà il padre, dopo lunga e penosa malattia, appena dopo due anni dalla nascita. Il piccolo venne così subito colpito dalla durezza della vita e, ancora bambino, imparò a fare il tessitore per aiutare la madre, seguendola di città in città nella ricerca di lavoro. La madre, una donna laboriosa e intraprendente, per far fronte alla fame, andò ad elemosinare dai ricchi parenti del marito, ma fu respinta. Quando il fratello più grande di Giovanni, Francesco, cominciò a lavorare, il secondogenito morì di stenti. Poveri, appena potevano, aiutavano gli altri. Un bimbo in necessità entrò a far parte della loro famiglia. Juan tentò di impegnarsi in alcune occupazioni manuali, ma con scarsi risultati; fu mandato in un collegio per orfani, studiava e, contemporaneamente, per mantenersi agli studi cui si sentiva portato, faceva l'inserviente in un ospedale a Medina del Campo. Per il suo impegno nello studio, fu ammesso al Collegio della Dottrina, dei Padri della Compagnia di Gesù, «facendovi molto progresso in poco tempo». Quando Giovanni ebbe 21 anni, tutta l'esperienza d'amore, di povertà e di intelligenza di cui s'era nutrito si concretizzò per lui nella vocazione carmelitana. Nel 1563, in un’epoca in cui la vita regolare dell’Ordine era molto rilassata, entrò nel Carmelo di Medina, prendendo il nome di fra Giovanni di San Mattia; scelse questo antico Ordine perché attratto dal suo stile contemplativo e dalla sua particolare devozione alla Vergine Maria. Dopo la professione (1564), iniziò gli studi teologici e filosofici alla splendida Università di Salamanca, presto riconosciuto come il miglior studente della scuola, per talento e serietà. Scelse per sé una cella piccola e buia, solo perché godeva di una finestrella che guardava sul presbiterio della chiesa e vi passava lunghe ore assorto nella contemplazione del tabernacolo. Alla fine del terzo anno di studi, venne ordinato sacerdote e, di ritorno a Medina per la celebrazione della prima Messa, incontrò S. Teresa di Gesù, la quale da poco aveva ottenuto dal Priore Generale Rossi il permesso per la fondazione di due conventi di Carmelitani contemplativi (poi detti Scalzi), perché fossero di aiuto alle monache da lei istituite. L'incontro avvenne mentre Giovanni, desideroso di una più totale contemplazione, stava pensando di passare tra i certosini e Teresa stava pensando a come riformare anche il Carmelo maschile. Era il 1567. Ecco come la santa di Avila raccontò quel provvidenziale incontro: «Parlandogli ne rimasi molto soddisfatta e seppi da lui che desiderava andare tra i certosini... gli dissi che se voleva migliorare avrebbe reso ancor più servizio al Signore rimanendo nel suo Ordine. Egli mi diede la sua parola di aspettare, a patto che non si tardasse molto». S.Teresa di Gesù aveva trent'anni più di lui. Anch'ella aveva sofferto tormenti interiori con la ricerca di una nuova vocazione. Ma ormai da alcuni anni si era calmata cominciando a riformare i Carmeli femminili. Stava creando dei piccoli "paradisi in terra" dove le sorelle si aiutavano reciprocamente a "vedere Dio" fin da questa terra con gli occhi limpidi della fede e col fuoco della carità.
Teresa considerava l’impresa di estendere la sua "riforma" al ramo maschile dell'Ordine molto importante perché gli uomini avrebbero potuto legare assieme la contemplazione e la missione: uniti con Dio per seguire Cristo e darlo agli altri, dove la Chiesa aveva più bisogno d'essere aiutata e sorretta.Giovanni accettò di condividere l'ideale e il destino di lei: tornò a Salamanca per completare gli studi prima di essere ordinato prete, e intanto Teresa cercò il modo di poter avere un conventino per i primi carmelitani riformati.
Fu lei stessa che tagliò e cucì per Giovanni il povero abito di lana grezza. Il 28 novembre 1568, Giovanni della Croce (questo il suo nuovo nome) si trasferì prima a Valladolid e poi a Duruelo, tra un gruppetto di case coloniche, sperduto nella campagna, dove iniziò la Riforma del Carmelo maschile, secondo lo stile di Teresa di Gesù.
Avevano adattato un vecchio edificio: il coro era nel solaio dove si poteva entrare e restare solo chinati, il portale era stato trasformato in cappella, due cellette erano agli angoli del coro, così basse che si toccava il tetto con la testa. Una cucinetta divisa a metà serviva anche per refettorio. Dovunque alle pareti c’erano croci di legno e qualche immagine di carta. Qui gli "eremiti" vivevano in una incredibile austerità. Si nutrivano di lunghe preghiere, così intense che quasi non s'accorgevano nemmeno di pregare; da lì andavano poi a predicare e a confessare presso i contadini delle borgate vicine. Quando Teresa andò per la prima volta a trovarli, si commosse. Per un certo periodo Giovanni chiamò i suoi parenti a vivere con loro: mentre i frati erano a predicare, mamma Caterina preparava il povero cibo della comunità, il fratello Francesco rassettava le camere e i letti, e sua moglie Anna lavava i panni.
Fu, in senso proprio, una nascita per il Carmelo immaginato e voluto da santa Teresa, e gli "eremiti" vi fecero un'esperienza tanto ricca e profonda quanto era necessario per sostenere per sempre la nuova vita. Giovanni dovette subito assumersi il compito di maestro dei novizi, carica che ricoprì fino al trasferimento in un luogo più idoneo ad una vita di comunità, nel 1572. Santa Teresa che era stata nominata a forza Priora di un grande monastero di suore carmelitane non riformate, lo chiamò per farsi aiutare in una vera opera di rieducazione spirituale.
Dal 1572 al 1577 fu, quindi, nominato confessore del monastero dell'Incarnazione in Avila. I due lavorarono assieme e il turbolento monastero, dove vivevano più di 130 suore, divenne pian piano quello che doveva essere: una casa di preghiera e di carità. Teresa chiamava Giovanni il suo «piccolo Seneca», scherzava amabilmente sulla sua esile figura definendolo «mezzo uomo», ma non esitava a considerarlo il padre della sua anima, affermando anche che non era possibile discorrere con lui di Dio senza vederlo rapito in estasi. Ma una parte dei frati, tra cui anche alcuni superiori non guardavano di buon occhio la riforma e considerarono i riformati degli avventurieri inquieti e disobbedienti. I cosiddetti «mitigati», definirono Santa Teresa «donna inquieta e vagabonda» e San Giovanni della Croce «religioso disobbediente, ribelle e contumace». Così il rappresentante del Generale dell'Ordine comandò che Giovanni della Croce fosse arrestato. In quel tempo i conventi avevano una cella-prigione per i frati-ribelli. Il 2 dicembre 1577 Giovanni venne «incarcerato» dai confratelli carmelitani: considerato un ribelle, fu letteralmente rinchiuso in uno stanzino angusto e maleodorante e, verso di lui, si accanirono con inusitata ferocia. Bendato e maltrattato lo portarono fino a Toledo, dove un convento possente si ergeva sulle sponde del Tago. Lo rinchiusero in un bugigattolo incavato nel muro: serviva a volte da latrina ed era quasi del tutto privo di luce. Aveva solo una feritoia larga tre dita che dava su un'altra stanza. Solo a mezzogiorno Giovanni riusciva a leggere il breviario, l'unica cosa che gli avevano lasciato.
Vi restò quasi nove mesi: tempo che ebbe un'importanza centrale e risolutiva nella sua vita. Ma fu in quelle tenebre esteriori che si accese la grande fiamma della sua poesia spirituale. «Patire e poi morire» era il suo motto preferito. Scrisse più tardi: «Una sola grazia di quelle che Dio mi fece in quel luogo non si può pagare con una piccola prigione, anche se fosse durata anni». Trattato a pane e acqua, con una sola tonaca che gli marciva addosso senza che egli la potesse mai lavare, ogni venerdì sulle spalle riceveva nel grande refettorio una flagellazione così violenta che, anni dopo, avrebbe avuto ancora delle cicatrici non rimarginate. Gli dissero che si era "riformato" soltanto per voglia di comandare e per essere considerato un santo. I pidocchi lo divoravano, la febbre lo consumava.
In una poesia di commento al salmo 137 (Super flumina), identificandosi con il popolo d'Israele prigioniero, disse di quel tempo: «Allì me hirio el amor» (là mi ferì l'amore). Ferito dall'amore di Dio, scrisse in carcere alcune poesie che resteranno tra i versi più sublimi della letteratura spagnola, certamente tra le più elevate composizioni mistiche di tutti i tempi: dieci Romanze trinitarie; il poemetto "La fonte". Lì, in quella inconsueta prigione, il suo cuore si aprì a Dio nel commento vivo al Cantico dei Cantici.
Nel profondo dell'abisso, nel buio terribile che l'avvolgeva ancora fisicamente, nel centro oscuro della notte, dal suo cuore nacquero le più calde e luminose poesie d'amore costruite con materiale biblico, ma anche secondo lo stile e le forme in uso al suo tempo.
Egli le compose a memoria e creò un mondo incredibile di immagini, simboli, sentimenti: un mondo dove la bellezza si fa grido dell'anima che cerca Cristo come la Sposa cerca il suo Sposo e si fa attrazione inesorabile di Dio che in Cristo cerca la sua creatura.
La notte, quella vera e terribile del carcere che cercò di sommergere anche l'anima del povero fraticello perseguitato, divenne la condizione ineliminabile per incamminarsi verso il mondo della rivelazione di Dio, lasciandosi alle spalle ogni cosa che potesse distrarre da questa "avventura".
Quando, dopo nove mesi, trascorsa la festa dell'Assunta, di notte, riuscì a fuggire dal carcere, rischiando di sfracellarsi sulle sponde rocciose del Tago, Giovanni si rifugiò nel monastero delle Carmelitane di Toledo, e poi in quello di Beas. Quando egli giunse nel loro parlatorio, le monache lo guardarono smarrite. "Era – dissero - come un morto, tutto pelle e ossa, e così sfinito che quasi non poteva parlare, magrissimo e di colore cadaverico”.
Dopo il carcere di Toledo gli restarono ancora solo quattordici anni di vita: ed egli li passò interamente come superiore di molti conventi, generalmente amato e stimato, anche se tenuto un po' sempre in secondo piano, ricercato soprattutto da coloro che gli chiedevano di guidarli nel cammino verso Dio. A tutti Giovanni insegnò che morire può anche significare vivere, mentre a volte si chiama vita ciò che è soltanto morire. I monasteri fondati da Teresa - e che vivevano del suo spirito e del suo stile - si protendevano naturalmente ad accogliere e desiderare la guida di Giovanni della Croce. E fu per loro che egli accettò di manifestare la straordinaria e strana sua esperienza spirituale. Poiché glielo chiedevano le persone che egli più amava, egli compì, per tutta la vita che gli restò, la fatica di riprendere la sua "parola poetica" e di tentarne una spiegazione, un commento, utilizzando tutto quello che sapeva, tutta la teologia che aveva studiato, tutte le analisi teologiche, filosofiche, psicologiche di cui era capace, nel tentativo di spiegare l'indicibile. Vennero così composti i più noti trattati ascetici, i quattro grandi commenti alle sue poesie: Salita del Monte Carmelo; Notte oscura; Cantico spirituale; Fiamma viva d'amore; lasciandone alcuni incompleti.
Come all'inizio della sua vita e come nel suo culmine, così verso la fine dei suoi giorni, Giovanni della Croce si trovò nuovamente di fronte a quel mistero di morte e risurrezione, al quale si era consacrato.
Per una serie di malevoli incomprensioni, alcuni dei suoi confratelli (questa volta non i frati che rifiutavano la "riforma", ma i suoi stessi "scalzi", quelli che egli aveva formati, che egli amava come figli, quelli di cui era così fiero che diceva che era "la più bella gente che c'era nella Chiesa"), alcuni dunque gli si rivoltarono contro.
Molti gli si strinsero attorno a difenderlo, ma i pochi che gli volevano male avevano in mano il potere, e qualcuno di essi cercò perfino di togliergli l'abito e di cacciarlo dall'Ordine.
Ma durante quei giorni penosissimi nessuno riuscì a sentire da Giovanni una critica o un'autodifesa. Dopo la vicenda di Toledo, esercitò di nuovo vari incarichi di superiore, sino a che il Vicario Generale (nel frattempo la riforma aveva ottenuto una certa autonomia) Nicola Doria fece a meno di lui nel 1591. Venne esonerato da ogni incarico di responsabilità ed «esiliato» in Andalusia, a Ubeda (Jaen), dove visse momenti terribili, di quasi totale abbandono, con tranquillità, lavorando ogni giorno con gioia e umiltà come aveva sempre fatto. A 49 anni egli si ammalò gravemente: nel collo del piede gli si aprì una piaga tumorale che non volle guarire. Sotto operazioni chirurgiche che avevano del supplizio diceva tra gli spasimi: «Non è niente, conviene che sia così». Gli offrirono di scegliersi un convento dove farsi curare, ed egli scelse l'unico in cui dominava un Priore che gli voleva male: costui gli assegnò la cella più povera e stretta, trascurò di procurargli i rimedi necessari, gli rinfacciò volentieri il misero costo delle cure, e impedì agli amici di rendergli sollievo. Il male si estese e le piaghe gli distrussero il corpo. Al medico che lo doveva ripetutamente medicare raschiando l'osso vivo, sembrò impossibile che si potesse soffrire tanto e con tanta pace.
Giovanni percepì totalmente il dolore: l'essere così strettamente unito a Dio, "trasformato in amore", non poteva né doveva togliere nulla alla sua realistica imitazione di Cristo Crocifisso.
Intanto la morte si avvicinava. Era il venerdì 13 dicembre 1591. Giovanni era convinto che sarebbe morto al sorgere del sabato, giorno dedicato alla Vergine Santa del Carmelo.
La sera prima egli si era "riconciliato" col suo Priore: con una "verità" che per noi è difficile perfino immaginare, lo fece chiamare e gli disse: "Padre, l'abito della Vergine che ho portato e del quale mi sono servito - dato che io sono povero e mendicante e non ho nulla con cui essere sepolto -, per l'amore di Dio io supplico Vostra Reverenza di darmelo per carità". Il Priore sconvolto lo benedisse ed uscì dalla cella. Poi lo videro piangere. Solo allora si ricredette e riconobbe di avere sbagliato.
Nel tardo pomeriggio si fece portare l'Eucaristia, pronunciando parole tenerissime, e prima che portassero via l'Ostia Santa, disse: "Signore, ormai non vi vedrò più con gli occhi del corpo".
La notte si avvicinava e Giovanni assicurava che egli "sarebbe andato a cantare il mattutino in cielo". Verso le undici e mezzo i religiosi del convento erano attorno al suo letto e Giovanni chiese di recitare il De profundis: egli lo intonò e i frati risposero versetto per versetto. Poi si continuò con i salmi penitenziali.
Accanto a lui era giunto il Padre provinciale, il vecchio padre Antonio, di 81 anni, col quale aveva iniziato la prima fondazione di Duruelo e costui credette di dargli conforto rammentandogli quanto aveva dovuto faticare per la Riforma dell'Ordine.
"Padre - gli disse Giovanni - non è il momento di parlarne; solo per i meriti del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo io spero di salvarmi". Iniziarono le preghiere per gli agonizzanti. Giovanni le interruppe. Disse: "Non ho bisogno di questo, Padre, mi legga qualcosa del Cantico dei Cantici". E mentre quei versetti d'amore risuonavano nella cella del morente, Giovanni sembrò incantato e sospirò: "Che perle preziose!". A mezzanotte suonarono le campane di mattutino e appena il morente le udì esclamò per la gioia: "Gloria a Dio, andrò a cantarlo in cielo". Poi guardò fissamente i presenti come per salutarli, baciò il crocifisso e disse in latino: "Signore, nelle tue mani affido il mio spirito".
Così, morì a Ubeda il 14 dicembre 1591, facendo sue le parole del Cantico dei cantici, in un trasporto d’amore. Aveva scritto in una sua celebre poesia: "Rompi la tela ormai al dolce incontro!". I presenti raccontarono di una luce dolce e di un intenso profumo che riempì la stanza. Giovanni della Croce aveva così compiuto la sua missione. Canonizzato da Benedetto XIII il 27 dicembre 1726, venne proclamato Dottore della Chiesa da Pio XI il 24 agosto 1926. Nel 1993 Giovanni Paolo II lo ha nominato patrono dei poeti di lingua spagnola.

Il suo magistero fu fondamentalmente orale; se scrisse, fu perché ripetutamente richiesto. Tema centrale del suo insegnamento che lo ha reso celebre fuori e dentro la chiesa cattolica è l'unione per grazia dell'uomo con Dio, per mezzo di Gesù Cristo: dal grado più umile al più sublime, in un itinerario che prevede la tappa della via purgativa, illuminativa e unitiva, altrimenti detta dei principianti, proficienti e perfetti. Cristo è «presente e operoso» sempre nella Chiesa. Per arrivare al tutto, che è Dio, occorre che l'uomo dia tutto di sé, non con spirito di schiavitù, bensì di amore. Celebri i suoi aforismi: "Nella sera della tua vita sarai esaminato sull'amore", e "dove non c'è amore, metti amore e ne ricaverai amore". "Non far cosa, né dir parola importante, tale che Cristo non farebbe e non direbbe, se si trovasse nello stato in cui sei tu, e avesse l'età e la salute che tu hai"; "Non chiedere altro che la croce, e precisamente senza consolazione, perché questo è, perfetto"; "Rinnega i tuoi desideri e troverai ciò che il tuo cuore desidera". San Giovanni della Croce non chiedeva che sofferenza e umiliazione: «Signore - pregava - non chiedo che di patire con voi. E che sia considerato nulla ». Le sofferenze che subì gli insegnarono a scoprire il mistero della croce e ad avanzare sulla strada della più alta contemplazione e della vita mistica. Come per S.Teresa d'Avila, i suoi scritti vennero raccolti in un libro col nome di "OPERE", poemi e trattati che sprigionano la sua sapienza mistica, quella che non viene dai libri e dagli studi, ma che si "sa per amore". La salita del “Monte” Carmelo, dei vertici della spiritualità ove si compie il mistero amoroso dell’unione con Dio, certo, non è una via facile. Ha i passaggi obbligati delle purificazioni e delle prove ed è attraverso la nudità e l’oscurità della fede, attraverso la dura e meravigliosa ventura della Notte oscura, che l’anima può giungere alle pure esperienze in cui svolge il dialogo con l’Amato, come la Sposa del Cantico dei Cantici, come l’Amante Amata del Cantico Spirituale. Ma allora l’anima non vuole altro che ardere dell’unione consumante della Fiamma Viva d’Amore..

Le Opere minori, Poesie, Cautele, Avvisi, Massime e le Lettere, mettono in luce una ricchissima serie di dettagli molto preziosi per la conoscenza personale del Santo ed anche per la retta interpretazione della sua dottrina.

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Messaggio  Elio Gio Dic 15, 2011 12:59 pm


M. Crocifissa di Rosa
Suo padre, Clemente Di Rosa, è un cospicuo imprenditore bresciano. La madre, Camilla Albani, appartiene alla nobiltà bergamasca, e viene a mancare quando lei, Paola Francesca, ha soltanto 11 anni. A quell’età entra nel collegio della Visitazione per gli studi, e ne esce a 17 anni. Il padre comincia a parlarle di matrimonio, ma non se ne farà nulla, perché lei vuole restare fedele al voto di castità fatto in istituto.
Niente matrimonio, dunque. Il padre la mette subito ai lavori, allora, mandandola a dirigere una sua fabbrica di filati di seta ad Acquafredda, un paese del Bresciano in riva al fiume Chiese, con una settantina di operaie. Siamo nel regno Lombardo-Veneto che, malgrado il nome, è una provincia “a statuto speciale” dell’Impero austro- ungarico, governata dall’arciduca Ranieri d’Asburgo col titolo di viceré (austriaco è pure l’arcivescovo di Milano, il cardinale Gaetano Gaysruck, spesso però in polemica con i governanti).
Così, la giovane manager col voto di castità si impegna nell’azienda di famiglia. E al tempo stesso organizza aiuti per i poveri e gli ammalati in necessità, e si dedica all’istruzione religiosa femminile, aiutata da alcune ragazze. Insieme si fanno infermiere volontarie e lavorano senza alcun riconoscimento civile o ecclesiastico. Nel 1836 la Lombardia è colpita dal colera, che fa 32 mila morti e si estende anche al Veneto e all’Emilia. Con le sue ragazze, Paola Francesca fa servizio volontario nel lazzaretto, assiste chi è malato in casa, si occupa degli orfani. Dà anche vita a due scuole per sordomuti. Nel 1840 si trova a capo di 32 ragazze con esperienza infermieristica e preparate persino all’istruzione religiosa, ma ancora senza approvazioni ufficiali, senza “personalità giuridica”. Questo è dovuto pure alla situazione politica del tempo, a qualche ostacolo locale; e il risultato è sempre uno solo: ufficialmente Paola Francesca e tutte le ragazze non esistono. Ma per i bresciani esistono, sì: loro le vedono all’opera, e soprattutto ne ammirano il coraggio nella tremenda primavera del 1849, durante le “Dieci Giornate”; ossia quando la città si ribella agli austriaci (vincitori della guerra contro il Regno di Sardegna) e subisce poi la rappresaglia ordinata dal feldmaresciallo Haynau. In mezzo alla tragedia, loro sono lì a soccorrere i feriti e a fare coraggio. E finalmente nel 1851 l’intrepida comunità ottiene la prima approvazione della Santa Sede come congregazione religiosa, col nome di Ancelle della Carità.
Nel 1852, Paola Francesca pronuncia i voti e come religiosa diventa suor Maria Crocifissa (ha voluto chiamarsi come la sua sorella maggiore, morta nel1839). Guidate da lei, le Ancelle della Carità incominciano a estendere la loro opera in Lombardia e nel Veneto, ma ormai le resta poco da vivere, anche se è ancora giovane. Si ammala nella casa delle Ancelle in Mantova, e di lì ritorna a Brescia solo per morirvi, a 42 anni. Pio XII Pacelli la proclamerà santa nel1954. Le sue spoglie sono custodite nella Casa madre di Brescia.

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Messaggio  dirramatore Gio Dic 15, 2011 4:52 pm

Grazie di queste info Elio... una volta l'addetta era Lux.. ma ultimamente... scratch
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Messaggio  Elio Gio Dic 15, 2011 11:26 pm

dirramatore ha scritto:Grazie di queste info Elio... una volta l'addetta era Lux.. ma ultimamente... scratch
E' molto impegnata di giorno
Il Santo del giorno - Pagina 2 Topoli14[/url]Il Santo del giorno - Pagina 2 Topoli14Il Santo del giorno - Pagina 2 Topoli14[/quote
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Messaggio  dirramatore Gio Dic 15, 2011 11:30 pm

ogni tanto però lo fà ancora..
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Messaggio  Lux Gio Dic 15, 2011 11:55 pm

dirramatore ha scritto:Grazie di queste info Elio... una volta l'addetta era Lux.. ma ultimamente... scratch

ringrazio elio per averlo ripreso, purtroppo in questo periodo mi è impossibile
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Messaggio  Elio Ven Dic 16, 2011 1:39 pm

Santa ADELAIDE, IMPERATRICE
Nell'anno 947, a sedici anni Adelaide, duchessa di Borgogna, era divenuta sposa di Lotario II, re d'Italia. Ma le avvelenarono il marito per costringerla a nuove nozze col figlio del marchese Berengario d'Ivrea. Si rifugiò allora in Germania alla corte dell'Imperatore Ottone il Grande, che la scelse come sua sposa. Il matrimonio fu celebrato a Pavia nella notte di Natale del 951. Adelaide aveva vent'anni. Già la cronaca appena accennata, e pur così travagliata, ci fa intuire che doveva essere una donna dotata di molto fascino. E così la descrissero i contemporanei esaltandone la bellezza, l'eccezionale cultura e la profonda pietà religiosa. Alla morte del marito (nel 973), le fu affidata la reggenza dell'Impero. Seppe allora mostrare le sue straordinarie capacità sia in campo politico che in quello delle arti, ma soprattutto in quello religioso. Fu ammirata per l'intensa vita spirituale e per la misericordia che seppe sempre dimostrare verso i poveri e gli umili. Favorì in ogni modo la riforma benedettina cluniacense (quella che faceva riferimento all'abbazia di Cluny), fondando monasteri in Italia, Germania e Francia. Negli ultimi anni si ritirò in un monastero da lei fondato nei pressi di Strasburgo, dove morì sul finire del primo millennio (nella penultima settimana dell'anno 999). Suoi amici e confidenti spirituali erano stati sant'Adalberto di Magdeburgo e l'abate sant'Odilone di Cluny, che ne scrisse la vita. Altri santi. Vergini Martiri d'Africa (V sec.); Adone, vescovo di Vienne (ca 800-875); beato Clemente Marchisio, sacerdote e fondatore (1833-1903). Letture. «Il mio Tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Isaia 56,1-3.6-; «Dio abbia pietà di noi e ci benedica» (Salmo 66); «Le opere che io compio testimoniano che il Padre mi ha mandato» (Giovanni 5,33-36). Ambrosiano. Ezechiele 40,1-4; 43,1-9; Salmo 28; Osea 14,2-10; Matteo 23,13-26

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Messaggio  briganta Ven Dic 16, 2011 4:47 pm

dev'essere impegnata assai lux meno male che c'è elio che scrive
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Messaggio  Lux Ven Dic 16, 2011 11:37 pm

ho un valido collaboratore brigante però sono contenta che seguite questo post
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Messaggio  dirramatore Ven Dic 16, 2011 11:55 pm

ormai è area di Elio questa!!
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Messaggio  Elio Sab Dic 17, 2011 1:39 pm

Giovanni de Matha
L'amico degli schiavi
Non dovette essere facile per Giovanni de Matha (1154-1213), docente di teologia all'università di Parigi, lasciare la cattedra per dedicarsi a riscattare i cristiani rapiti e condotti schiavi in Africa. Era diventato prete tardi, sui quarant'anni, ma già durante la celebrazione della prima Santa Messa, s'era sentito chiamato a quella inaudita missione. Ci vollero tre anni, vissuti in solitudine con quattro eremiti, per progettare la straordinaria impresa. Della sua prima esperienza di docente di teologia, mantenne solo il desiderio di dare, all'Istituto che intendeva fondare, l'impegnativo nome di Ordine della Santissima Trinità. Nacquero così i Trinitari, dall'abito bianco con croce azzurra e rossa sul petto, che cominciarono raccogliendo elemosine. Avevano deciso che tutti i proventi raccolti sarebbero stati divisi in tre parti uguali: una doveva servire al mantenimento dell'Istituto, una per pagare i riscatti e una per l'assistenza e il reinserimento sociale degli ex schiavi. La prima spedizione, approvata da papa Innocenzo III, partì per il Marocco nel 1199, dove quei nuovi frati cominciarono la loro missione visitando mercati, prigioni e cantieri di lavoro. Tornarono in patria con duecento prigionieri riscattati (ognuno con regolare registrazione presso un notaio) e sbarcarono a Marsiglia: alla loro testa c'era Giovanni de Matha che li conduceva processionalmente in Cattedrale, cantando in latino il Salmo: «Quando Israele uscì dall'Egitto...». Da quel giorno, gli schiavi liberati (soprattutto in Africa e, poi, in America latina) furono centinaia di migliaia. Un nome celebre tra tutti: Cervantes (futuro autore del «Don Chisciotte»), catturato da un pirata albanese, che i Trinitari riscattarono ad Algeri. Altri santi: San Lazzaro di Betania; Cinquanta Soldati, martirizzati dai saraceni in Palestina (VII sec.); beato Giacinto Maria Cormier, domenicano (1832-1916). Letture: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda, finché verrà colui al quale esso appartiene» (Genesi 49,2.8-10); «Ai miseri del suo popolo Dio renderà giustizia» (Salmo 71); «Da Maria è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,1-17). Ambrosiano: Rut 1,1-14; Salmo 9; Ester 1,1-5.10.11-12;2,1-2.15-18; Luca 1,1-17.
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Messaggio  Elio Dom Dic 18, 2011 11:43 pm

IV domenica di Avvento
Il progetto di Davide

La parola del profeta sconvolge le attese e i progetti di Davide. Natan, prima condiscendente al volere del suo re, riceve poi la rivelazione dell'autentica volontà di Dio, e la comunica con fedeltà e coraggio. A buon diritto il re dei tempi antichi può essere paragonato all'uomo moderno, sempre più padrone della sua esistenza, apparentemente libero da ogni condizionamento, capace di gestire il proprio futuro. Ma questo orizzonte di sconfinata autonomia ha bisogno di trovare un interlocutore, di aprirsi ad un dialogo, di essere indirizzato al bene. Davide è invitato dalla parola del profeta a confrontarsi con un altro progetto, a mettere in dialogo la propria libertà con quella di Dio. Può scoprire così che il suo intento di costruire una casa a Dio rischia di essere limitato e limitante: quasi un voler ridurre il Signore di Israele a strumento di potere, in vista di un tornaconto immediato. Il confronto tra la propria situazione e quella di Dio parte anch'esso da una concezione troppo mondana. "Io abito in una casa di cedro…": Davide percepisce la sproporzione tra la sua posizione e quella di Dio, ma vorrebbe, ingenuamente, pareggiarla, come se Dio avesse bisogno di una sede di rappresentanza prestigiosa. Dio invece sfonda i confini angusti del pensiero di Davide. Egli non ricerca prestigio da un edificio, né si lascia ridurre a strumento di governo. Il suo progetto va oltre, e anche Davide ne è solo una parte. Anche noi oggi, come Davide, siamo invitati a scoprire che Dio opera qualcosa che va al di là delle nostre attese, che non siamo noi che ci mettiamo per primi al suo servizio, ma lui che in Gesù entra a far parte della storia "non per essere servito, ma per servire".
[img]Il Santo del giorno - Pagina 2 Untitl35[/img]

Altri Santi del giorno

Graziano, vescovo (III sec.);
Flamiano, vescovo (VII sec.);
Vunibaldo, abate (701-761).
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Messaggio  Elio Mar Dic 20, 2011 12:16 am

Sant'Anastasio

Magundat, figlio di un sacerdote zoroastriano e soldato dell’esercito persiano, viene affascinato dalla venerazione dei cristiani per la croce. Si reca dunque a Gerusalemme e riceve il battesimo, assumendo il nome di Anastasio, “il risorto”, per indicare l’avvenuta conversione. Dopo aver praticato la vita monastica, è catturato dai persiani a Cesarea di Palestina e sottoposto a tormenti affinché abiuri.Viene infine portato in Assiria, dove è strangolato e decapitato, nella prima metà del VII secolo

Il suo capo e la sua immagine sono traslati a Roma, nel monastero detto ad Aquas Salvias,oggi chiesa intitolata ai Santi Vincenzo (martire spagnolo morto agli inizi del IV secolo) e Anastasio, nel complesso abbaziale delle Tre Fontane. Il Messale Romano del 1570 ha accomunato i due santi nella celebrazione, il 22 gennaio. Nel 787 il II Concilio di Nicea stabilisce le virtù taumaturgiche dell’immagine di Sant’Anastasio contro demoni e malattie. Il culto di Sant’Anastasio in Italia viene diffuso dal re longobardo Liutprando nel secolo VIII.

La ricorrenza di Sant’Anastasio cade in un periodo dell’anno caratterizzato da tradizioni legate al fuoco, in alcune regioni d’Italia anche San Vincenzo, martirizzato con il fuoco, viene commemorato con l’accensione di falò. In ambito locale si può notare come Acquaviva d’Isernia risulti, fino al 1064, tra i possedimenti del complesso monastico di San Vincenzo al Volturno, dove è inoltre raffigurata, in uno degli affreschi altomedioevali della cripta di Epifanio, la santa Anastasia di Sirmio, arsa viva, secondo l’agiografia, agli inizi del IV secolo.
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Messaggio  Lux Mar Dic 20, 2011 12:19 am

non è un nome molto comune dalle nostre parti vero?
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Messaggio  Elio Mar Dic 20, 2011 12:20 am

Lux ha scritto:non è un nome molto comune dalle nostre parti vero?
No infatti non ti so dire neanche in quale regione d'Italia bho forse il Lazio
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Messaggio  Lux Mar Dic 20, 2011 12:31 am

però dare il nome di Anastasia ad una bambina lo trovo curioso qua è sempre la solita minestra con i nomi dei genitori..........non se ne può più!!!
Qualche temerario a Sellia c'è stato che ha voluto rivoluzionare un po' la situazione ma sono sempre pochi con il rischio che poi i genitori o i suoceri ti tengano il muso lungo
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