Il Santo del giorno
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Elio
dirramatore
briganta
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Lux
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Re: Il Santo del giorno
basta ma vena......
Lux- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
elio, io non ci sono mai stato proprio nel comune dove abiti e quindi non lo conosco affatto. Ma ci sono più salite o più discese dalle tue parti??
dirramatore- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
[quote="dirramatore"]elio, io non ci sono mai stato proprio nel comune dove abiti e quindi non lo conosco affatto. Ma ci sono più salite o più discese dalle tue parti??[/quote
Si simu ari pendici e na muntagna vuol dire ca ci sunu discei e sagghjuti no i kimma
Si simu ari pendici e na muntagna vuol dire ca ci sunu discei e sagghjuti no i kimma
Elio- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
Si basta ma venaLux ha scritto:basta ma vena......
Elio- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
[quote="Elio"]
ma non mi hai risposto se sono più le salite o più le discese!!!
dirramatore ha scritto:elio, io non ci sono mai stato proprio nel comune dove abiti e quindi non lo conosco affatto. Ma ci sono più salite o più discese dalle tue parti??[/quote
Si simu ari pendici e na muntagna vuol dire ca ci sunu discei e sagghjuti no i kimma
ma non mi hai risposto se sono più le salite o più le discese!!!
dirramatore- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
Sunu pari
Elio- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
ok, io non le ho misurate mai da queste parti...
dirramatore- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
ihihihihihihihidirramatore ha scritto:ok, io non le ho misurate mai da queste parti...
Elio- Utente popolarissimo
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Re: Il Santo del giorno
Sant'ILARIO di POITIERS
Questo Padre e Dottore della Chiesa nacque a Poitiers, nell'Aquitania, verso il 315, da una distinta famiglia pagana, che gli fece impartire una solida educazione letteraria e filosofica a base neoplatonica. S. Ilario stesso nel trattato De Trinitate l'espone come, agitato dal problema del nostro destino, non ne abbia trovato una risposta soddisfacente nella filosofia pagana, ma soltanto nel prologo del Vangelo di S. Giovanni, in cui è detto che il Verbo disceso dal cielo dona a coloro che lo ricevono il potere di diventare figli di Dio.
Ilario era adulto quando ricevette il battesimo, sposato e padre di una figlia, Abra. Non è improbabile che per la sua vita austera e ferventissima il vescovo della città lo abbia aggregato alla sua chiesa con qualche ordine sacro. È certo però che quando morì, Ilario gli successe nell'episcopato e si sforzò di praticare quanto scriverà più tardi: "La santità senza la scienza non può essere utile che a se stessa. Quando si insegna, occorre che la scienza fornisca un alimento alla parola e che la virtù serva di ornamento alla scienza" (De Trinitate, VIII, l). Attratto dalla fama di lui S. Martino, lasciata, la milizia, venne a mettersi alla scuola acconsentendo a lasciarsi ordinare esorcista.
"Il Santo pastore fu ben presto spinto dalle circostanze a lottare tanto strenuamente contro l'arianesimo da essere considerato l'Atanasio dell'Occidente". Molti vescovi non accettavano la dottrina di Nicea (325) della consustanzialità del Figlio di Dio con il Padre, preferendo insegnare che gli era soltanto simile. Costanzo, figlio di Costantino, pretendeva di fare accettare le loro idee da tutto l'impero, pena l'esilio. Per la difesa dell'ortodossia S. Ilario convocò forse a Parigi nel 355, un'assemblea che scomunicò Valente e Ursacio, ambiziosi vescovi di corte, persecutori di Atanasio, e Saturnino, primate di Arles. che aveva condiviso le loro violenze. Costui e i suoi complici, imbaldanziti dall'indifferenza con cui Giuliano, governatore della Gallia, trattava le dispute dei teologi, si riunirono a Béziers. Per ordine di Costanzo, Ilario dovette prendervi parte, ma avendo ricusato di aderire alla politica religiosa dell'imperatore, fu deportato nel 356 nella Frigia. I vescovi della Gallia, in maggioranza ortodossi, non vollero che un intruso s'impadronisse della sede di Poitiers. Durante il suo esilio S. Ilario poté, difatti, con lettere dirigere la sua chiesa.
Nell'Asia Minore non rimase ozioso. Approfittò del tempo per comporre il suo capolavoro, De Trinitate in 12 libri, per studiare a fondo i problemi dell'oriente con larghezza di vedute, e cercare di ricondurre gli erranti alla fede nicena. "Non ho considerato come un delitto, dirà più tardi, di aver avuto colloqui con loro, anzi, pur rifiutando loro la comunione, di entrare nelle loro case di preghiera e di sperare ciò che si doveva attendere da loro per il bene della pace, allorché aprivamo loro una via al riscatto dei loro errori mediante la penitenza, un ricorso a Cristo mediante l'abbandono dell'anticristo". (Adv. Costant. 2). La stessa sollecitudine per la conciliazione manifesterà nel De Synodis, libro scritto per informare i vescovi della Gallia riguardo alle varie professioni di fede degli orientali.
Il suo esilio durava da quattro anni, quando, nel 359, Costanzo convocò un concilio a Rimini per gli occidentali, e un altro a Seleucia, nell'Isauria, per gli orientali. Ilario vi fu accolto favorevolmente e poté esporre la fede nicena, ma la concordia non fu raggiunta per il malanimo di molti. Dopo il sinodo il santo si portò a Costantinopoli per ottenere da Costanzo il permesso di discutere pubblicamente con Saturnino che era stato la causa del suo esilio, e di comparire nel concilio che si teneva allora nella città imperiale per potervi difendere la fede ortodossa sull'autorità delle Sacre Scritture. Per tutta risposta Costanzo lo rimandò a Poitiers sobillato dagli ariani, i quali, per sbarazzarsi dello scomodo avversario, glielo avevano dipinto "come seminatore di discordia e perturbatore dell'oriente".
A Poitiers Ilario fu accolto in trionfo. Appena seppe del suo ritorno, S. Martino lo raggiunse dal suo ritiro nell'isola Gallinaria (Albenga), e sotto la direzione del suo maestro fondò a Ligugé il più antico monastero della Gallia onde neutralizzare in parte almeno i tristi effetti della eresia.
Ilario ogni tanto andava a visitare i cenobiti per seguire le loro regole e prendere parte ai loro canti. È risaputo che fu egli il primo compositore di inni dell'occidente nell'intento di contrapporsi all'attività poetica degli ariani.
La situazione politica intanto era notevolmente cambiata dal mese di maggio 360, quando i soldati di stanza a Parigi avevano gridato imperatore Giuliano. Ilario ne approfittò con decisione e moderazione per radunare sinodi provinciali, onde confermare nell'ortodossia i vescovi rimasti fedeli, e richiamarvi quelli che avevano sottoscritto per ignoranza o timore formule erronee o compromettenti, come quella del concilio di Rimini. La deposizione di Saturnino di Arles e di Paterno di Périgueux segnò la disfatta dell'arianesimo nell'occidente. La morte di Costanzo (+361) diede un colpo decisivo alla supremazia ariana in Oriente, perché i vescovi furono richiamati dall'esilio, e l'anno dopo S. Atanasio potè radunare ad Alessandria il celebre "concilio dei confessori" e adottare con successo la moderazione del vescovo di Poitiers.
S. Ilario insieme con S. Eusebio, vescovo di Vercelli, combatté pure per due anni l'arianesimo in Italia, e tentò di cacciare dalla sede di Milano, Aussenzio, che il concilio di Parigi del 361 aveva anatematizzato. Questi, nel 364, appellò all'imperatore Valentiniano, allegando i decreti del concilio di Rimini da lui fatti sottoscrivere da tanti vescovi, e accusando i suoi avversari di turbare la pace religiosa. Queste considerazioni impressionarono l'imperatore il quale mantenne Aussenzio nella sua sede, soddisfatto di una professione di fede equivoca che costui aveva fatto alla presenza di dieci vescovi e di alti funzionari. S. Ilario, ricevuto l'ordine di lasciare Milano, scrisse il suo Contra Auxentium per smascherare le ipocrite reticenze di lui e mantenere l'integrità della fede tra il popolo.
Ritiratesi nella sua diocesi, il santo poté dedicarsi ai suoi studi prediletti e al commento dei Salmi, finché lo colse la morte il 1-11-367. Le sue reliquie nel 1562 furono bruciate dagli ugonotti. Pio IX nel 1851 lo proclamò Dottore della Chiesa.
Questo Padre e Dottore della Chiesa nacque a Poitiers, nell'Aquitania, verso il 315, da una distinta famiglia pagana, che gli fece impartire una solida educazione letteraria e filosofica a base neoplatonica. S. Ilario stesso nel trattato De Trinitate l'espone come, agitato dal problema del nostro destino, non ne abbia trovato una risposta soddisfacente nella filosofia pagana, ma soltanto nel prologo del Vangelo di S. Giovanni, in cui è detto che il Verbo disceso dal cielo dona a coloro che lo ricevono il potere di diventare figli di Dio.
Ilario era adulto quando ricevette il battesimo, sposato e padre di una figlia, Abra. Non è improbabile che per la sua vita austera e ferventissima il vescovo della città lo abbia aggregato alla sua chiesa con qualche ordine sacro. È certo però che quando morì, Ilario gli successe nell'episcopato e si sforzò di praticare quanto scriverà più tardi: "La santità senza la scienza non può essere utile che a se stessa. Quando si insegna, occorre che la scienza fornisca un alimento alla parola e che la virtù serva di ornamento alla scienza" (De Trinitate, VIII, l). Attratto dalla fama di lui S. Martino, lasciata, la milizia, venne a mettersi alla scuola acconsentendo a lasciarsi ordinare esorcista.
"Il Santo pastore fu ben presto spinto dalle circostanze a lottare tanto strenuamente contro l'arianesimo da essere considerato l'Atanasio dell'Occidente". Molti vescovi non accettavano la dottrina di Nicea (325) della consustanzialità del Figlio di Dio con il Padre, preferendo insegnare che gli era soltanto simile. Costanzo, figlio di Costantino, pretendeva di fare accettare le loro idee da tutto l'impero, pena l'esilio. Per la difesa dell'ortodossia S. Ilario convocò forse a Parigi nel 355, un'assemblea che scomunicò Valente e Ursacio, ambiziosi vescovi di corte, persecutori di Atanasio, e Saturnino, primate di Arles. che aveva condiviso le loro violenze. Costui e i suoi complici, imbaldanziti dall'indifferenza con cui Giuliano, governatore della Gallia, trattava le dispute dei teologi, si riunirono a Béziers. Per ordine di Costanzo, Ilario dovette prendervi parte, ma avendo ricusato di aderire alla politica religiosa dell'imperatore, fu deportato nel 356 nella Frigia. I vescovi della Gallia, in maggioranza ortodossi, non vollero che un intruso s'impadronisse della sede di Poitiers. Durante il suo esilio S. Ilario poté, difatti, con lettere dirigere la sua chiesa.
Nell'Asia Minore non rimase ozioso. Approfittò del tempo per comporre il suo capolavoro, De Trinitate in 12 libri, per studiare a fondo i problemi dell'oriente con larghezza di vedute, e cercare di ricondurre gli erranti alla fede nicena. "Non ho considerato come un delitto, dirà più tardi, di aver avuto colloqui con loro, anzi, pur rifiutando loro la comunione, di entrare nelle loro case di preghiera e di sperare ciò che si doveva attendere da loro per il bene della pace, allorché aprivamo loro una via al riscatto dei loro errori mediante la penitenza, un ricorso a Cristo mediante l'abbandono dell'anticristo". (Adv. Costant. 2). La stessa sollecitudine per la conciliazione manifesterà nel De Synodis, libro scritto per informare i vescovi della Gallia riguardo alle varie professioni di fede degli orientali.
Il suo esilio durava da quattro anni, quando, nel 359, Costanzo convocò un concilio a Rimini per gli occidentali, e un altro a Seleucia, nell'Isauria, per gli orientali. Ilario vi fu accolto favorevolmente e poté esporre la fede nicena, ma la concordia non fu raggiunta per il malanimo di molti. Dopo il sinodo il santo si portò a Costantinopoli per ottenere da Costanzo il permesso di discutere pubblicamente con Saturnino che era stato la causa del suo esilio, e di comparire nel concilio che si teneva allora nella città imperiale per potervi difendere la fede ortodossa sull'autorità delle Sacre Scritture. Per tutta risposta Costanzo lo rimandò a Poitiers sobillato dagli ariani, i quali, per sbarazzarsi dello scomodo avversario, glielo avevano dipinto "come seminatore di discordia e perturbatore dell'oriente".
A Poitiers Ilario fu accolto in trionfo. Appena seppe del suo ritorno, S. Martino lo raggiunse dal suo ritiro nell'isola Gallinaria (Albenga), e sotto la direzione del suo maestro fondò a Ligugé il più antico monastero della Gallia onde neutralizzare in parte almeno i tristi effetti della eresia.
Ilario ogni tanto andava a visitare i cenobiti per seguire le loro regole e prendere parte ai loro canti. È risaputo che fu egli il primo compositore di inni dell'occidente nell'intento di contrapporsi all'attività poetica degli ariani.
La situazione politica intanto era notevolmente cambiata dal mese di maggio 360, quando i soldati di stanza a Parigi avevano gridato imperatore Giuliano. Ilario ne approfittò con decisione e moderazione per radunare sinodi provinciali, onde confermare nell'ortodossia i vescovi rimasti fedeli, e richiamarvi quelli che avevano sottoscritto per ignoranza o timore formule erronee o compromettenti, come quella del concilio di Rimini. La deposizione di Saturnino di Arles e di Paterno di Périgueux segnò la disfatta dell'arianesimo nell'occidente. La morte di Costanzo (+361) diede un colpo decisivo alla supremazia ariana in Oriente, perché i vescovi furono richiamati dall'esilio, e l'anno dopo S. Atanasio potè radunare ad Alessandria il celebre "concilio dei confessori" e adottare con successo la moderazione del vescovo di Poitiers.
S. Ilario insieme con S. Eusebio, vescovo di Vercelli, combatté pure per due anni l'arianesimo in Italia, e tentò di cacciare dalla sede di Milano, Aussenzio, che il concilio di Parigi del 361 aveva anatematizzato. Questi, nel 364, appellò all'imperatore Valentiniano, allegando i decreti del concilio di Rimini da lui fatti sottoscrivere da tanti vescovi, e accusando i suoi avversari di turbare la pace religiosa. Queste considerazioni impressionarono l'imperatore il quale mantenne Aussenzio nella sua sede, soddisfatto di una professione di fede equivoca che costui aveva fatto alla presenza di dieci vescovi e di alti funzionari. S. Ilario, ricevuto l'ordine di lasciare Milano, scrisse il suo Contra Auxentium per smascherare le ipocrite reticenze di lui e mantenere l'integrità della fede tra il popolo.
Ritiratesi nella sua diocesi, il santo poté dedicarsi ai suoi studi prediletti e al commento dei Salmi, finché lo colse la morte il 1-11-367. Le sue reliquie nel 1562 furono bruciate dagli ugonotti. Pio IX nel 1851 lo proclamò Dottore della Chiesa.
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Re: Il Santo del giorno
SAN FELICE DA NOLA
Sei km da Nola, a Cimitile vi è uno dei più importanti complessi paleocristiani del Mezzogiorno d’Italia; fino al II secolo d.C. esisteva una necropoli pagana, vicino alla quale i primi cristiani della zona, seppellirono i loro morti in un ‘cæmeterium’, termine da cui deriva il toponimo di Cimitile.
In seguito i nolani vi deposero le spoglie del prete s. Felice, la fama dei miracoli che si verificarono sulla tomba del santo, fece della località, una meta di pellegrinaggio. Già nel IV secolo, nel recinto erano presenti diverse basiliche, divenute sei nei tempi successivi, esse sono adiacenti fra loro, alcune sovrapposte e sono: San Felice in Pincis, Santo Stefano, San Giovanni, San Paolino, Santissimi Martiri e San Gaulonio, ad esse si aggiunge la parrocchiale del 1789, posta in alto sul sito archeologico e dedicata anch’essa a San Felice in Pincis.
L’origine di questi importanti luoghi di culto e di preghiera, si collega ad un ‘monasterium’ fatto costruire dal vescovo di Nola s. Paolino, originario di Bordeaux, il quale stabilendosi nel 394 a Cimitile ne determinò la crescita, infatti presso il ‘monasterium’ si riunirono molti amici del santo vescovo, divenuto poi il santo patrono di Nola e a cui è dedicata, nel giorno della sua festa il 22 giugno, la grande e celebre Festa dei Gigli di Nola; questi uomini, conducendo una vita di lavoro e di preghiera, anticiparono di un secolo la Regola di s. Benedetto.
S. Paolino divenuto vescovo di Nola nel 409, lasciò il ‘monasterium’, ingrandì il cimitero e fece costruire la Basilica Nuova (400-403) inglobata poi nel XVI secolo nella Basilica di S. Giovanni; questa comunicava mediante un passaggio a triplice arcata, con quella di San Felice in Pincis.
Quest’ultima è senz’altro la più importante delle sette basiliche, edificata nel IV secolo, sui resti della necropoli dei “gentili” di Nola, custodisce il sepolcro del prete martire s. Felice, custodito in un’arca formata da una celletta, in cui furono deposti anche i resti di altri due vescovi.
La piccola costruzione divenne un “martyrium” con una apertura che serviva di passaggio ai fedeli che introducevano nella tomba degli unguenti, ritenuti miracolosi e protettivi contro le malattie, dopo il contatto con il corpo del santo.
Il sepolcro è inserito in un’edicola monumentale, sorretta da colonne e decorata da un mosaico del V secolo, il tutto incastonato nella più ampia Basilica; il sepolcro-altare, inizialmente piccolo e povero, divenne come la sorgente di edifici spaziosi e rimane adesso come una gemma incastonata in cinque basiliche, i cui tetti, visti da lontano danno l’immagine di una grande città; così come lo descriveva s. Paolino nel carme 18.
Tutto quello che si conosce di s. Felice, ci è trasmesso dal santo vescovo Paolino, il quale già devoto del santo, quando arrivò a Nola ed a Cimitile, gli dedicò ben 14 dei suoi carmi, che sono detti ‘natalizi’ (carmina natalizia) perché scritti dal 395 al 409 nella ricorrenza del ‘dies natalis’ della festa del santo, il 14 gennaio.
Il racconto poetico di Paolino è il primo documento storico della vita di s. Felice, cioè la prima elaborazione scritta della tradizione orale, da lui appresa in zona.
Felice nacque a Nola nel III secolo da padre siro, trasferitosi dall’Oriente in Italia, molto ricco; aveva un fratello Ermia che scelse la carriera militare, mentre lui si consacrò a Cristo come presbitero.
Divenne fedele collaboratore del vescovo di Nola, Massimo, che durante l’ultima persecuzione contro i cristiani, lasciò Nola per rifugiarsi in luogo deserto, lasciando in città il prete Felice che voleva come suo successore.
Ma Felice fu imprigionato e torturato, poi liberato miracolosamente da un angelo che lo condusse nel luogo deserto, dove il vecchio vescovo Massimo era moribondo, consumato dagli stenti e dalle sofferenze. Lo rifocillò con il succo di uva miracolosa e poi caricatolo sulle spalle, lo riportò a Nola, affidandolo alle cure di una anziana cristiana.
Durante la sospensione della persecuzione, poté riprendere il suo ministero sacerdotale, ma quando la persecuzione riprese, Felice fu di nuovo ricercato, ma egli sfuggì alla cattura rifugiandosi in una cisterna disseccata, dove per sei mesi fu alimentato, senza essere conosciuto, da una pia donna.
Cessata definitivamente la persecuzione con la pace di Costantino (313), Felice ritorna a Nola, dove morto il vecchio vescovo Massimo viene candidato a succedergli, ma egli rifiuta a favore del prete Quinto, rinuncia anche ai beni che gli erano stati confiscati e trascorre il resto dei suoi giorni nella povertà e nel lavoro.
Non si consce l’anno della sua morte, alcuni dati dicono sotto Valeriano (258), ma come spiegare che sia lui, che il vescovo Massimo non furono uccisi, è probabile quindi che siano morti dopo la pace di Costantino, quindi dopo il 313.
S. Felice fu comunque sempre venerato come martire, anche se non era stato ucciso, ma certamente aveva tanto sofferto e solo miracolosamente aveva avuto salva la vita. La sua tomba fu detta “Ara Veritatis”, perché gli si attribuiva particolare efficacia per il trionfo della verità, contro gli spergiuri.
Al santo patrono di Cimitile, sono dedicate dai fedeli ben due feste con processioni, che iniziate il 5 gennaio, vengono completate il 14 gennaio, giorno della sua festa liturgica; la prima parte dall’antichissimo sepolcro nell’area delle basiliche paleocristiane e finisce nell’ultima in ordine di tempo, cioè nella chiesa parrocchiale di S. Felice in Pincis; l’altra percorre il paese di Cimitile.
San Paolino resta il suo più grande cantore, con i ‘carmina’ ne descrive i numerosi miracoli operati, il culto che riceveva, la descrizione particolareggiata dei luoghi, delle primitive basiliche; ma nonostante ciò San Felice, forse per il suo nome, così numeroso nell’agiografia cristiana, fu confuso spesso con altri santi omonimi, che portarono ad un culto fuori della zona nolana, anche a Roma (in Pincis); inoltre la presenza di un presunto protovescovo di Nola (festa il 15 novembre) di nome s. Felice, ha complicato l’identificazione.
Ma è fuori discussione che il s. Felice, prete martire di Nola, è quello celebrato il 14 gennaio.
SONO RIUSCITO AD ENTRARE POCHISSIMI SECONDI IL TEMPO PER POSTARE BHO
Sei km da Nola, a Cimitile vi è uno dei più importanti complessi paleocristiani del Mezzogiorno d’Italia; fino al II secolo d.C. esisteva una necropoli pagana, vicino alla quale i primi cristiani della zona, seppellirono i loro morti in un ‘cæmeterium’, termine da cui deriva il toponimo di Cimitile.
In seguito i nolani vi deposero le spoglie del prete s. Felice, la fama dei miracoli che si verificarono sulla tomba del santo, fece della località, una meta di pellegrinaggio. Già nel IV secolo, nel recinto erano presenti diverse basiliche, divenute sei nei tempi successivi, esse sono adiacenti fra loro, alcune sovrapposte e sono: San Felice in Pincis, Santo Stefano, San Giovanni, San Paolino, Santissimi Martiri e San Gaulonio, ad esse si aggiunge la parrocchiale del 1789, posta in alto sul sito archeologico e dedicata anch’essa a San Felice in Pincis.
L’origine di questi importanti luoghi di culto e di preghiera, si collega ad un ‘monasterium’ fatto costruire dal vescovo di Nola s. Paolino, originario di Bordeaux, il quale stabilendosi nel 394 a Cimitile ne determinò la crescita, infatti presso il ‘monasterium’ si riunirono molti amici del santo vescovo, divenuto poi il santo patrono di Nola e a cui è dedicata, nel giorno della sua festa il 22 giugno, la grande e celebre Festa dei Gigli di Nola; questi uomini, conducendo una vita di lavoro e di preghiera, anticiparono di un secolo la Regola di s. Benedetto.
S. Paolino divenuto vescovo di Nola nel 409, lasciò il ‘monasterium’, ingrandì il cimitero e fece costruire la Basilica Nuova (400-403) inglobata poi nel XVI secolo nella Basilica di S. Giovanni; questa comunicava mediante un passaggio a triplice arcata, con quella di San Felice in Pincis.
Quest’ultima è senz’altro la più importante delle sette basiliche, edificata nel IV secolo, sui resti della necropoli dei “gentili” di Nola, custodisce il sepolcro del prete martire s. Felice, custodito in un’arca formata da una celletta, in cui furono deposti anche i resti di altri due vescovi.
La piccola costruzione divenne un “martyrium” con una apertura che serviva di passaggio ai fedeli che introducevano nella tomba degli unguenti, ritenuti miracolosi e protettivi contro le malattie, dopo il contatto con il corpo del santo.
Il sepolcro è inserito in un’edicola monumentale, sorretta da colonne e decorata da un mosaico del V secolo, il tutto incastonato nella più ampia Basilica; il sepolcro-altare, inizialmente piccolo e povero, divenne come la sorgente di edifici spaziosi e rimane adesso come una gemma incastonata in cinque basiliche, i cui tetti, visti da lontano danno l’immagine di una grande città; così come lo descriveva s. Paolino nel carme 18.
Tutto quello che si conosce di s. Felice, ci è trasmesso dal santo vescovo Paolino, il quale già devoto del santo, quando arrivò a Nola ed a Cimitile, gli dedicò ben 14 dei suoi carmi, che sono detti ‘natalizi’ (carmina natalizia) perché scritti dal 395 al 409 nella ricorrenza del ‘dies natalis’ della festa del santo, il 14 gennaio.
Il racconto poetico di Paolino è il primo documento storico della vita di s. Felice, cioè la prima elaborazione scritta della tradizione orale, da lui appresa in zona.
Felice nacque a Nola nel III secolo da padre siro, trasferitosi dall’Oriente in Italia, molto ricco; aveva un fratello Ermia che scelse la carriera militare, mentre lui si consacrò a Cristo come presbitero.
Divenne fedele collaboratore del vescovo di Nola, Massimo, che durante l’ultima persecuzione contro i cristiani, lasciò Nola per rifugiarsi in luogo deserto, lasciando in città il prete Felice che voleva come suo successore.
Ma Felice fu imprigionato e torturato, poi liberato miracolosamente da un angelo che lo condusse nel luogo deserto, dove il vecchio vescovo Massimo era moribondo, consumato dagli stenti e dalle sofferenze. Lo rifocillò con il succo di uva miracolosa e poi caricatolo sulle spalle, lo riportò a Nola, affidandolo alle cure di una anziana cristiana.
Durante la sospensione della persecuzione, poté riprendere il suo ministero sacerdotale, ma quando la persecuzione riprese, Felice fu di nuovo ricercato, ma egli sfuggì alla cattura rifugiandosi in una cisterna disseccata, dove per sei mesi fu alimentato, senza essere conosciuto, da una pia donna.
Cessata definitivamente la persecuzione con la pace di Costantino (313), Felice ritorna a Nola, dove morto il vecchio vescovo Massimo viene candidato a succedergli, ma egli rifiuta a favore del prete Quinto, rinuncia anche ai beni che gli erano stati confiscati e trascorre il resto dei suoi giorni nella povertà e nel lavoro.
Non si consce l’anno della sua morte, alcuni dati dicono sotto Valeriano (258), ma come spiegare che sia lui, che il vescovo Massimo non furono uccisi, è probabile quindi che siano morti dopo la pace di Costantino, quindi dopo il 313.
S. Felice fu comunque sempre venerato come martire, anche se non era stato ucciso, ma certamente aveva tanto sofferto e solo miracolosamente aveva avuto salva la vita. La sua tomba fu detta “Ara Veritatis”, perché gli si attribuiva particolare efficacia per il trionfo della verità, contro gli spergiuri.
Al santo patrono di Cimitile, sono dedicate dai fedeli ben due feste con processioni, che iniziate il 5 gennaio, vengono completate il 14 gennaio, giorno della sua festa liturgica; la prima parte dall’antichissimo sepolcro nell’area delle basiliche paleocristiane e finisce nell’ultima in ordine di tempo, cioè nella chiesa parrocchiale di S. Felice in Pincis; l’altra percorre il paese di Cimitile.
San Paolino resta il suo più grande cantore, con i ‘carmina’ ne descrive i numerosi miracoli operati, il culto che riceveva, la descrizione particolareggiata dei luoghi, delle primitive basiliche; ma nonostante ciò San Felice, forse per il suo nome, così numeroso nell’agiografia cristiana, fu confuso spesso con altri santi omonimi, che portarono ad un culto fuori della zona nolana, anche a Roma (in Pincis); inoltre la presenza di un presunto protovescovo di Nola (festa il 15 novembre) di nome s. Felice, ha complicato l’identificazione.
Ma è fuori discussione che il s. Felice, prete martire di Nola, è quello celebrato il 14 gennaio.
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Re: Il Santo del giorno
SAN MAURO
Un prete di vita sconcia, per far fuori Benedetto da Norcia, gli manda nella sua comunità di Subiaco l’omaggio tradizionale di un grosso pane benedetto. Ma a lui basta toccarlo per “sentire” che è avvelenato. E chiama un corvo suo amico, che pronto arriva a uncinare il pane col becco e a portarlo lontano. Un affresco nel Sacro Speco di Subiaco mostra il corvo già in volo col pane, Benedetto che lo saluta e due ragazzi che stanno a guardare stupe fatti. Si chiamano Placido e Mauro, figli dei patrizi romani Tertullo ed Eutichio, che li hanno condotti nella “confederazione” di piccoli monasteri creata da Benedetto, e a lui li hanno affidati per l’educazione.
Parla di Mauro il papa Gregorio Magno (590-604) nei suoi Dialoghi e gli attribuisce gesta prodigiose. Come quando, visto cadere Placido nel vicino lago, lo raggiunge camminando sull’acqua e lo tira in salvo per i capelli. O quando si mette a pedinare un monaco che taglia sempre la corda nell’ora del la preghiera: e smaschera così un piccolo diavolo che sta vicino a lui, e lo tira per la tonaca... Ma tutto avviene sempre per ordine e con l’aiuto del padre spirituale, cioè di Benedetto. (Con i Dialoghi, papa Gregorio voleva trasmettere insegnamenti ascetici e morali; non certo fare opera di puro cronista. I suoi molti racconti hanno appunto questo scopo. Ma va anche detto che gli studiosi del nostro tempo si stanno interessando anche all’importanza storica dell’opera).
Quando Benedetto lascia Subiaco per Montecassino (verso il 529), Mauro quasi certamente rimane lì, come abate di Subiaco. E a questo punto finisce la sua storia, già tanto esile e monca: non conosciamo gli anni di nasci ta e di morte né alcun altro fatto che lo riguardi. Affondato nel mistero.
Trecento anni dopo (863) compare in Francia una sedicente “biografia” di lui. Autore: l’abate Odone di Glanfeuil, che dice di aver praticamente riscritto il racconto di un certo Fausto, amico di Mauro e arrivato con lui in Francia, portandovi la Regola benedettina. Non c’è alcun documento che confermi il racconto di Odone o che certifichi la presenza di Mauro in terra francese. Pura fantasia, si direbbe. Eppure...
Eppure il paese dell’abate Odone, Glanfeuil, si è poi chiamato Saint Maur sur Loire. Eppure nel 1618, mille anni dopo Mauro, nasce in Francia una congregazione benedettina, che nel 1766 avrà 191 case e 1.917 monaci. E con loro, ecco tornare il nome del discepolo di san Benedetto: questi religiosi si chiamano infatti monaci maurini. La fine della loro congregazione, poi, è una grande pagina di storia benedettina: nei “massacri di settembre” della Francia rivoluzionaria (1792) viene messo a morte l’ultimo abate generale: Agostino Chevreux. E con lui altri quaranta confratelli. Tutti monaci maurini. Ne ha fatto di strada, questo nome.
Un prete di vita sconcia, per far fuori Benedetto da Norcia, gli manda nella sua comunità di Subiaco l’omaggio tradizionale di un grosso pane benedetto. Ma a lui basta toccarlo per “sentire” che è avvelenato. E chiama un corvo suo amico, che pronto arriva a uncinare il pane col becco e a portarlo lontano. Un affresco nel Sacro Speco di Subiaco mostra il corvo già in volo col pane, Benedetto che lo saluta e due ragazzi che stanno a guardare stupe fatti. Si chiamano Placido e Mauro, figli dei patrizi romani Tertullo ed Eutichio, che li hanno condotti nella “confederazione” di piccoli monasteri creata da Benedetto, e a lui li hanno affidati per l’educazione.
Parla di Mauro il papa Gregorio Magno (590-604) nei suoi Dialoghi e gli attribuisce gesta prodigiose. Come quando, visto cadere Placido nel vicino lago, lo raggiunge camminando sull’acqua e lo tira in salvo per i capelli. O quando si mette a pedinare un monaco che taglia sempre la corda nell’ora del la preghiera: e smaschera così un piccolo diavolo che sta vicino a lui, e lo tira per la tonaca... Ma tutto avviene sempre per ordine e con l’aiuto del padre spirituale, cioè di Benedetto. (Con i Dialoghi, papa Gregorio voleva trasmettere insegnamenti ascetici e morali; non certo fare opera di puro cronista. I suoi molti racconti hanno appunto questo scopo. Ma va anche detto che gli studiosi del nostro tempo si stanno interessando anche all’importanza storica dell’opera).
Quando Benedetto lascia Subiaco per Montecassino (verso il 529), Mauro quasi certamente rimane lì, come abate di Subiaco. E a questo punto finisce la sua storia, già tanto esile e monca: non conosciamo gli anni di nasci ta e di morte né alcun altro fatto che lo riguardi. Affondato nel mistero.
Trecento anni dopo (863) compare in Francia una sedicente “biografia” di lui. Autore: l’abate Odone di Glanfeuil, che dice di aver praticamente riscritto il racconto di un certo Fausto, amico di Mauro e arrivato con lui in Francia, portandovi la Regola benedettina. Non c’è alcun documento che confermi il racconto di Odone o che certifichi la presenza di Mauro in terra francese. Pura fantasia, si direbbe. Eppure...
Eppure il paese dell’abate Odone, Glanfeuil, si è poi chiamato Saint Maur sur Loire. Eppure nel 1618, mille anni dopo Mauro, nasce in Francia una congregazione benedettina, che nel 1766 avrà 191 case e 1.917 monaci. E con loro, ecco tornare il nome del discepolo di san Benedetto: questi religiosi si chiamano infatti monaci maurini. La fine della loro congregazione, poi, è una grande pagina di storia benedettina: nei “massacri di settembre” della Francia rivoluzionaria (1792) viene messo a morte l’ultimo abate generale: Agostino Chevreux. E con lui altri quaranta confratelli. Tutti monaci maurini. Ne ha fatto di strada, questo nome.
Elio- Utente popolarissimo
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Data d'iscrizione : 25.05.11
Età : 64
Re: Il Santo del giorno
San Marcellino Papa
Nato a Roma, figlio di "Proietto". Nella liturgia cattolica fu sempre ricordato come una persona molto devota, pia e casta.
La figura di Marcellino fu ampiamente lodata da sant'Agostino, anche se cronologicamente molto postuma (nda: questo però sta a significare una continua tramandazione degli atti, delle tradizioni di culto e soprattutto della continuità sia di fede che del potere temporale intrinseco al movimento cristiano.)
Sempre secondo la tradizione, Marcellino fu incoronato "rex cristianorum" e vescovo di Roma il 30 giugno 296.
Gli inizi del suo pontificato furono gratificati dalla "pax" instaurata con l'imperatore dal suo predecessore Caio
Marcellino potè dedicarsi alla comunità nella sua interezza avendo soprattutto cura delle famiglie più bisognose.
Indirizzò l'ecumenismo ed il proselitismo cristiano verso quegli approdi dettati dalla fede.
Nel mentre la questione politica imperiale stava assumendo una connotazione diversa dal punto di vista politico.
Diocleziano materialmente impossibilitato a governare l'impero per come era stato conquistato,
Attraverso il senato fu stabilita una "tretarchia" per la quale, gli aggravi di governo furono suddivisi in tre diverse funzioni di governo.
Diocleziano a capo dell'impero d'oriente, Galerio governatore di Roma e Massimiano governatore dell' impero nord occidentale.
Fu il tetrarca Galerio, anticristiano per antonomasia, ad iniziare la cosiddetta "nona persecuzione" anticristiana, con la scusa dell'invadenza cristiana sulle terre imperiali. Dopo l'incontro a Nicomedia (nda: cittadina situata nel mar di Marmara, nella ex provincia romana di Bitinia- odierna Izmit), Galerio riuscì a convincere Diocleziano a ritornare al paganesimo e perseguire tutti i dissidenti.
Il 23 febbraio 303 fu incendiata la chiesa di Nicomedia. I cristiani, in risposta incendiarono il palazzo imperiale ed in conseguenza il pugno di ferro.
Le milizie romane distrussero quasi tutto. I beni confiscati e migliaia di persone furono condannate a morte. Fu addirittura massacrata l'intera "legione tebea", formata esclusivamente da cristiani (nda: si pensi che all'epoca non vi erano miliardi di individui, ma solo poche centinaia di migliaia, nel mondo conosciuto).
Marcellino fu decapitato per ordine dello stesso imperatore Diocleziano, il 25 ottobre 304 e le sue spoglie deposte nel cimitero di Priscilla.
Nato a Roma, figlio di "Proietto". Nella liturgia cattolica fu sempre ricordato come una persona molto devota, pia e casta.
La figura di Marcellino fu ampiamente lodata da sant'Agostino, anche se cronologicamente molto postuma (nda: questo però sta a significare una continua tramandazione degli atti, delle tradizioni di culto e soprattutto della continuità sia di fede che del potere temporale intrinseco al movimento cristiano.)
Sempre secondo la tradizione, Marcellino fu incoronato "rex cristianorum" e vescovo di Roma il 30 giugno 296.
Gli inizi del suo pontificato furono gratificati dalla "pax" instaurata con l'imperatore dal suo predecessore Caio
Marcellino potè dedicarsi alla comunità nella sua interezza avendo soprattutto cura delle famiglie più bisognose.
Indirizzò l'ecumenismo ed il proselitismo cristiano verso quegli approdi dettati dalla fede.
Nel mentre la questione politica imperiale stava assumendo una connotazione diversa dal punto di vista politico.
Diocleziano materialmente impossibilitato a governare l'impero per come era stato conquistato,
Attraverso il senato fu stabilita una "tretarchia" per la quale, gli aggravi di governo furono suddivisi in tre diverse funzioni di governo.
Diocleziano a capo dell'impero d'oriente, Galerio governatore di Roma e Massimiano governatore dell' impero nord occidentale.
Fu il tetrarca Galerio, anticristiano per antonomasia, ad iniziare la cosiddetta "nona persecuzione" anticristiana, con la scusa dell'invadenza cristiana sulle terre imperiali. Dopo l'incontro a Nicomedia (nda: cittadina situata nel mar di Marmara, nella ex provincia romana di Bitinia- odierna Izmit), Galerio riuscì a convincere Diocleziano a ritornare al paganesimo e perseguire tutti i dissidenti.
Il 23 febbraio 303 fu incendiata la chiesa di Nicomedia. I cristiani, in risposta incendiarono il palazzo imperiale ed in conseguenza il pugno di ferro.
Le milizie romane distrussero quasi tutto. I beni confiscati e migliaia di persone furono condannate a morte. Fu addirittura massacrata l'intera "legione tebea", formata esclusivamente da cristiani (nda: si pensi che all'epoca non vi erano miliardi di individui, ma solo poche centinaia di migliaia, nel mondo conosciuto).
Marcellino fu decapitato per ordine dello stesso imperatore Diocleziano, il 25 ottobre 304 e le sue spoglie deposte nel cimitero di Priscilla.
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Re: Il Santo del giorno
Sant' Antonio Abate
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.
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Re: Il Santo del giorno
I kimma lux t'havja chiestu nu favora ppe stamattina si nu nozzulu
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Re: Il Santo del giorno
Beata Maria Teresa Fasce Agostiniana
Nasce nel 1881 a Torriglia, nell’entroterra genovese, in una famiglia borghese, dove si respira una religiosità intensa, tanto che ben tre figlie avvertono in modo chiaro e distinto la vocazione alla vita consacrata. Ma per quell’incoerenza illogica di troppe famiglie cristiane, ogni vocazione trova una ferma opposizione. Riesce a spuntarla solo lei, forse più cocciuta, certamente con una vocazione così salda da superare tutti gli ostacoli. Perché a lei non va bene un monastero qualsiasi , ma solo uno agostiniano; e non in una città qualunque, ma unicamente a Cascia. La famiglia, già contraria alla vocazione di per sé, tanto più ostacola la sua idea del monastero di Cascia, oscura cittadina che nessuno conosce e molto distante da Genova. Certamente più distante ddi Savona dove pure c’è un monastero agostiniano in cui la famiglia si adatterebbe a vederla entrare, ma di cui lei non vuole sapere. Il suo non è però un capriccio infantile, ma l’espressione della sua tenera devozione a Santa Rita, la quattrocentesca monaca agostiniana che Leone XIII ha proclamato santa nel 1900 e che appunto nel monastero di Cascia è vissuta ed è morta. Quando la famiglia si è convinta a lasciarla partire, a complicare ulteriormente la tormentata storia della sua vocazione arriva il netto rifiuto del monastero, le cui monache proprio non riescono a capire come quella “signorina in cappellino” avrebbe potuto adattarsi alla povertà del monastero dell’insignificante paesino di Cascia. Ancora una volta vince lei e nel 1906 entra nel monastero che ha sognato. Qui però non trova una situazione rosea, perché sette giovani monache provenienti da Macerata vi hanno portato un clima di aridità spirituale che la fa soffrire e la manda in crisi. Così nel 1910 si prende una pausa di riflessione e rientra in famiglia, ma torna a Cascia l’anno dopo, ben decisa, con la sua presenza e la sua opera, a risanare quel rilassato ambiente spirituale. Viene eletta Abbadessa nel 1920 e tale resterà per 27 anni, cioè fino alla morte. Con fermezza, amorevolezza e tanta umiltà riesce nel suo intento, ridonando al monastero il suo giusto equilibrio spirituale e caritativo. Innamorata di Santa Rita, allora conosciuta solo in Umbria o poco più, si fa propagatrice della sua devozione nel mondo, anche grazie al periodico “Dalle api alle rose” che fonda nel 1923; promuove pellegrinaggi che a quell’epoca per Cascia rappresentavano un evento eccezionale; realizza l’”Alveare di S. Rita” per accogliere le “Apette”, cioè le piccole orfane; pensa di costruire un santuario, in grado di accogliere i tanti pellegrini che lei già intravede. Ci riesce a prezzo di sacrifici immensi, incomprensioni, amarezze, cause giudiziarie, ostacoli della Soprintendenza, e che non avrà la soddisfazione di vedere ultimato, perché sarà consacrato quattro mesi dopo la sua morte. Sul suo fisico si accumulano malanni a non finire: il diabete si assomma all’asma, a problemi di cuore e di circolazione al punto da impedirle di camminare ed inoltre convive per 27 anni con un tumore al seno (non per nulla adesso viene invocata da chi è assalito dal male del secolo). Si spegne nella mattinata del 18 gennaio di 60 anni fa, circondata da una fama di santità che Giovanni Paolo II ha sancito il 12 ottobre 1997 con la solenne beatificazione di Madre Maria Teresa Fasce.
Nasce nel 1881 a Torriglia, nell’entroterra genovese, in una famiglia borghese, dove si respira una religiosità intensa, tanto che ben tre figlie avvertono in modo chiaro e distinto la vocazione alla vita consacrata. Ma per quell’incoerenza illogica di troppe famiglie cristiane, ogni vocazione trova una ferma opposizione. Riesce a spuntarla solo lei, forse più cocciuta, certamente con una vocazione così salda da superare tutti gli ostacoli. Perché a lei non va bene un monastero qualsiasi , ma solo uno agostiniano; e non in una città qualunque, ma unicamente a Cascia. La famiglia, già contraria alla vocazione di per sé, tanto più ostacola la sua idea del monastero di Cascia, oscura cittadina che nessuno conosce e molto distante da Genova. Certamente più distante ddi Savona dove pure c’è un monastero agostiniano in cui la famiglia si adatterebbe a vederla entrare, ma di cui lei non vuole sapere. Il suo non è però un capriccio infantile, ma l’espressione della sua tenera devozione a Santa Rita, la quattrocentesca monaca agostiniana che Leone XIII ha proclamato santa nel 1900 e che appunto nel monastero di Cascia è vissuta ed è morta. Quando la famiglia si è convinta a lasciarla partire, a complicare ulteriormente la tormentata storia della sua vocazione arriva il netto rifiuto del monastero, le cui monache proprio non riescono a capire come quella “signorina in cappellino” avrebbe potuto adattarsi alla povertà del monastero dell’insignificante paesino di Cascia. Ancora una volta vince lei e nel 1906 entra nel monastero che ha sognato. Qui però non trova una situazione rosea, perché sette giovani monache provenienti da Macerata vi hanno portato un clima di aridità spirituale che la fa soffrire e la manda in crisi. Così nel 1910 si prende una pausa di riflessione e rientra in famiglia, ma torna a Cascia l’anno dopo, ben decisa, con la sua presenza e la sua opera, a risanare quel rilassato ambiente spirituale. Viene eletta Abbadessa nel 1920 e tale resterà per 27 anni, cioè fino alla morte. Con fermezza, amorevolezza e tanta umiltà riesce nel suo intento, ridonando al monastero il suo giusto equilibrio spirituale e caritativo. Innamorata di Santa Rita, allora conosciuta solo in Umbria o poco più, si fa propagatrice della sua devozione nel mondo, anche grazie al periodico “Dalle api alle rose” che fonda nel 1923; promuove pellegrinaggi che a quell’epoca per Cascia rappresentavano un evento eccezionale; realizza l’”Alveare di S. Rita” per accogliere le “Apette”, cioè le piccole orfane; pensa di costruire un santuario, in grado di accogliere i tanti pellegrini che lei già intravede. Ci riesce a prezzo di sacrifici immensi, incomprensioni, amarezze, cause giudiziarie, ostacoli della Soprintendenza, e che non avrà la soddisfazione di vedere ultimato, perché sarà consacrato quattro mesi dopo la sua morte. Sul suo fisico si accumulano malanni a non finire: il diabete si assomma all’asma, a problemi di cuore e di circolazione al punto da impedirle di camminare ed inoltre convive per 27 anni con un tumore al seno (non per nulla adesso viene invocata da chi è assalito dal male del secolo). Si spegne nella mattinata del 18 gennaio di 60 anni fa, circondata da una fama di santità che Giovanni Paolo II ha sancito il 12 ottobre 1997 con la solenne beatificazione di Madre Maria Teresa Fasce.
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Re: Il Santo del giorno
San Macario il Grande Abate di Scete
La biografia di san Macario il grande viene spesso confusa con quella del suo omonimo san Macario Alessandrino, anch'egli monaco a Scete e suo contemporaneo. Ambedue insieme a Isidoro furono inizialmente discepoli di sant'Antonio abate. Macario il grande nasce intorno al 300. Giovanissimo diventa cammelliere, occupato nel trasporto del salnitro; nel 329-30. Tra il 330 e il 340 incontra sant'Antonio abate e vive a lungo con lui. Viene ordinato prete quando è già conosciuto come «padre spirituale» di quell'area di deserto. Dal 356 al 384 si avvicendano nel monastero tre gruppi di discepoli che costituiranno la colonia monastica di Scite. Tra il 373 e il 375 Macario viene esiliato insieme al suo omonimo Macario l'Alessandrino in un'isola del Nilo per ordine di Lucio, il vescovo ariano di Alessandria. La sua grande notorietà si deve soprattutto all'importanza che rivestì il monastero di Abu Macario nella storia del monachesimo egiziano. (Avvenire)
La vita narrata di Macario il Grande oppure detto anche l’Egiziano si confonde nella grande bibliografia esistente con quella del suo omonimo s. Macario Alessandrino, anch’egli monaco a Scete e suo contemporaneo, la cui ricorrenza religiosa è posta invece al 2 gennaio.
Ambedue insieme a Isidoro furono inizialmente discepoli di s. Antonio abate, è troppo complesso citare le numerose fonti che ci hanno fatto pervenire qualche notizia, prenderemo l’ultima che riassume un po’ tutte le altre, scritta e proposta da J.-Cl. Guy in “Les Apophtegmes des Pères du desert, série alphabétique” 1966.
Circa il 300 nasce Macario che diventa poi cammelliere occupato nel trasporto del salnitro; nel 329-30 circa si ritira in una cella vicino ad un villaggio egiziano, rifiuta di divenire prete e va in un altro villaggio dove è soggetto a calunnia; riparte per stabilirsi a Scete; 330-40 visita e permanenza presso s. Antonio abate; 339-40 viene ordinato prete, già si afferma come ‘padre spirituale’ di quel deserto.
Dal 356 al 384 si avvicendano nel monastero tre gruppi di discepoli che costituiranno la colonia monastica di Scite, di alcuni si sa il nome: Sisoe, Isaia, Aio, Mosé, Pafnuzio, Zaccaria, Teodoro di Ferme.
Nel 373-75 viene esiliato insieme al suo omonimo Macario l’Alessandrino in un’ isola del Nilo per ordine di Lucio (vescovo ariano di Alessandria).
Al di là dei meriti personali, della concomitanza d’azione con l’altro Macario, la grande diffusione bibliografica è dovuta soprattutto all’importanza che rivestì il suo monastero (Abu Macario) nell’influsso intellettuale e nella storia del monachesimo egiziano.
La sua festa liturgica era fissata in giorni diversi secondo i numerosi sinassari bizantini e martirologi, ma in Occidente fu Adone che per primo l’introdusse al 15 gennaio “In Aegypto beati Macharii abbatis, discipuli beati Antonii”, questa formula e giorno furono mantenuti da Cesare Baronio nel Martirologio Romano.
La biografia di san Macario il grande viene spesso confusa con quella del suo omonimo san Macario Alessandrino, anch'egli monaco a Scete e suo contemporaneo. Ambedue insieme a Isidoro furono inizialmente discepoli di sant'Antonio abate. Macario il grande nasce intorno al 300. Giovanissimo diventa cammelliere, occupato nel trasporto del salnitro; nel 329-30. Tra il 330 e il 340 incontra sant'Antonio abate e vive a lungo con lui. Viene ordinato prete quando è già conosciuto come «padre spirituale» di quell'area di deserto. Dal 356 al 384 si avvicendano nel monastero tre gruppi di discepoli che costituiranno la colonia monastica di Scite. Tra il 373 e il 375 Macario viene esiliato insieme al suo omonimo Macario l'Alessandrino in un'isola del Nilo per ordine di Lucio, il vescovo ariano di Alessandria. La sua grande notorietà si deve soprattutto all'importanza che rivestì il monastero di Abu Macario nella storia del monachesimo egiziano. (Avvenire)
La vita narrata di Macario il Grande oppure detto anche l’Egiziano si confonde nella grande bibliografia esistente con quella del suo omonimo s. Macario Alessandrino, anch’egli monaco a Scete e suo contemporaneo, la cui ricorrenza religiosa è posta invece al 2 gennaio.
Ambedue insieme a Isidoro furono inizialmente discepoli di s. Antonio abate, è troppo complesso citare le numerose fonti che ci hanno fatto pervenire qualche notizia, prenderemo l’ultima che riassume un po’ tutte le altre, scritta e proposta da J.-Cl. Guy in “Les Apophtegmes des Pères du desert, série alphabétique” 1966.
Circa il 300 nasce Macario che diventa poi cammelliere occupato nel trasporto del salnitro; nel 329-30 circa si ritira in una cella vicino ad un villaggio egiziano, rifiuta di divenire prete e va in un altro villaggio dove è soggetto a calunnia; riparte per stabilirsi a Scete; 330-40 visita e permanenza presso s. Antonio abate; 339-40 viene ordinato prete, già si afferma come ‘padre spirituale’ di quel deserto.
Dal 356 al 384 si avvicendano nel monastero tre gruppi di discepoli che costituiranno la colonia monastica di Scite, di alcuni si sa il nome: Sisoe, Isaia, Aio, Mosé, Pafnuzio, Zaccaria, Teodoro di Ferme.
Nel 373-75 viene esiliato insieme al suo omonimo Macario l’Alessandrino in un’ isola del Nilo per ordine di Lucio (vescovo ariano di Alessandria).
Al di là dei meriti personali, della concomitanza d’azione con l’altro Macario, la grande diffusione bibliografica è dovuta soprattutto all’importanza che rivestì il suo monastero (Abu Macario) nell’influsso intellettuale e nella storia del monachesimo egiziano.
La sua festa liturgica era fissata in giorni diversi secondo i numerosi sinassari bizantini e martirologi, ma in Occidente fu Adone che per primo l’introdusse al 15 gennaio “In Aegypto beati Macharii abbatis, discipuli beati Antonii”, questa formula e giorno furono mantenuti da Cesare Baronio nel Martirologio Romano.
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Re: Il Santo del giorno
San Sebastiano Martire
20 gennaio
Milano, 263 ca. – Roma, 304 ca.
Le notizie storiche su san Sebastiano sono davvero poche, ma la diffusione del suo culto ha resistito ai millenni, ed è tuttora molto vivo. Ben tre Comuni in Italia portano il suo nome, e tanti altri lo venerano come santo patrono. San Sebastiano fu sepolto nelle catacombe che ne hanno preso il nome. Il suo martirio avvenne sotto Diocleziano. Secondo i racconti della sua vita sarebbe stato un cavaliere valsosi dell'amicizia con l'imperatore per recare soccorso ai cristiani incarcerati e condotti al supplizio. Avrebbe fatto anche opera missionaria convertendo soldati e prigionieri. Lo stesso governatore di Roma, Cromazio, e suo figlio Tiburzio, da lui convertiti, avrebbero affrontato il martirio. Tutto ciò non poteva passare inosservato a corte, tanto che Diocleziano stesso convocò Sebastiano. Inizialmente si appellò alla vecchia familiarità: «Ti avevo aperto le porte del mio palazzo e spianato la strada per una promettente carriera e tu attentavi alla mia salute». Poi passò alle minacce e infine alla condanna. Venne legato al tronco di un albero, in aperta campagna, e saettato da alcuni commilitoni. (Avvenire)
Patronato: Atleti, Arcieri, Vigili urbani, Tappezzieri
Etimologia: Sebastiano = venerabile, dal greco
Emblema: Freccia, Palma
Martirologio Romano: San Sebastiano, martire, che, originario di Milano, venne a Roma, come riferisce sant’Ambrogio, al tempo in cui infuriavano violente persecuzioni e vi subì la passione; a Roma, pertanto, dove era giunto come ospite straniero, ebbe il domicilio della perpetua immortalità; la sua deposizione avvenne sempre a Roma ad Catacumbas in questo stesso giorno.
20 gennaio
Milano, 263 ca. – Roma, 304 ca.
Le notizie storiche su san Sebastiano sono davvero poche, ma la diffusione del suo culto ha resistito ai millenni, ed è tuttora molto vivo. Ben tre Comuni in Italia portano il suo nome, e tanti altri lo venerano come santo patrono. San Sebastiano fu sepolto nelle catacombe che ne hanno preso il nome. Il suo martirio avvenne sotto Diocleziano. Secondo i racconti della sua vita sarebbe stato un cavaliere valsosi dell'amicizia con l'imperatore per recare soccorso ai cristiani incarcerati e condotti al supplizio. Avrebbe fatto anche opera missionaria convertendo soldati e prigionieri. Lo stesso governatore di Roma, Cromazio, e suo figlio Tiburzio, da lui convertiti, avrebbero affrontato il martirio. Tutto ciò non poteva passare inosservato a corte, tanto che Diocleziano stesso convocò Sebastiano. Inizialmente si appellò alla vecchia familiarità: «Ti avevo aperto le porte del mio palazzo e spianato la strada per una promettente carriera e tu attentavi alla mia salute». Poi passò alle minacce e infine alla condanna. Venne legato al tronco di un albero, in aperta campagna, e saettato da alcuni commilitoni. (Avvenire)
Patronato: Atleti, Arcieri, Vigili urbani, Tappezzieri
Etimologia: Sebastiano = venerabile, dal greco
Emblema: Freccia, Palma
Martirologio Romano: San Sebastiano, martire, che, originario di Milano, venne a Roma, come riferisce sant’Ambrogio, al tempo in cui infuriavano violente persecuzioni e vi subì la passione; a Roma, pertanto, dove era giunto come ospite straniero, ebbe il domicilio della perpetua immortalità; la sua deposizione avvenne sempre a Roma ad Catacumbas in questo stesso giorno.
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Re: Il Santo del giorno
Dirra ma come facciamo a riprendere il sito parrocchiale di Sellia?? ma possibile che i nostri parroci non si vogliono interessare? quando c'era Don Francesco era ricco di notizie è un vero peccato averlo abbandonato, abbiamo impiegato tempo ed energia per portarlo ad un buon livello, avevamo creato pure lo spazio dei principali santuari, vederlo cosi mi piange il cuore.............ma non ci può aiutare nessuno???
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Re: Il Santo del giorno
Cercherò di informarmi ancora una volta se il tutto è fattibile.. dai, non ti preoccupare.. prima o poi ripartirà.
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Re: Il Santo del giorno
Grazie per aver postato il santo del giorno 20 scusatemi ma sono assente sino a lunedì . solo pochi minuti a tarda sera per postare i santi ciao a presto ragazzacci
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Re: Il Santo del giorno
SANTO DEL GIONRO 21 GENNAIO
SANT'AGNESE
Agnese nacque a Roma da genitori cristiani, di una illustre famiglia patrizia, nel III secolo. Quando era ancora dodicenne, scoppiò una persecuzione e molti furono i fedeli che s'abbandonavano alla defezione. Agnese, che aveva deciso di offrire al Signore la sua verginità, fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto. Fu esposta nuda al Circo Agonale, nei pressi dell'attuale piazza Navona. Un uomo che cercò di avvicinarla cadde morto prima di poterla sfiorare e altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni, fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell'iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio. La data della morte non è certa, qualcuno la colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall'imperatore Decio, altri nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano. In data odierna, 21 gennaio, il Calendario liturgico romano fa memoria della santa vergine Agnese, la cui antichità del culto presso la Chiesa latina è attestata dalla presenza del suo nome nel Canone Romano (odierna Preghiere Eucaristica I), accanto a quelli di altre celebri martiri: Lucia, Cecilia, Agata, Anastasia, Perpetua e Felicita.
Nulla sappiamo della famiglia di origine di Sant’Agnese, popolare martire romana. La parola “Agnese”, traduzione dell’aggettivo greco “pura” o “casta”, fu usato forse simbolicamente come soprannome per esplicare le sue qualità. Visse in un periodo in cui era illecito professare pubblicamente la fede cristiana. Secondo il parere di alcuni storici Agnese avrebbe versato il sangue il 21 gennaio di un anno imprecisato, durante la persecuzione di Valeriano (258-260), ma secondo altri, con ogni probabilità ciò sarebbe avvenuto durante la persecuzione dioclezianea nel 304. Durante la persecuzione perpetrata dall’imperatore Diocleziano, infatti, i cristiani furono uccisi così in gran numero tanto da meritare a tale periodo l’appellativo di “era dei martiri” e subirono ogni sorta di tortura.
Anche alla piccola Agnese toccò subire subire una delle tante atroci pene escogitate dai persecutori. La sua leggendaria Passio, falsamente attribuita al milanese Sant’Ambrogio, essendo posteriore al secolo V ha perciò scarsa autorità storica. Della santa vergine si trovano notizie, seppure vaghe e discordanti, nella “Depositio Martyrum” del 336, più antico calendario della Chiesa romana, nel martirologio cartaginese del VI secolo, in “De Virginibus” di Sant’Ambrogio del 377, nell’ode 14 del “Peristefhanòn” del poeta spagnolo Prudenzio ed infine in un carme del papa San Damaso, ancora oggi conservato nella lapide originale murata nella basilica romana di Sant’Agnese fuori le mura. Dall’insieme di tutti questi numerosi dati si può ricavare che Agnese fu messa a morte per la sua forte fede ed il suo innato pudore all’età di tredici anni, forse per decapitazione come asseriscono Ambrogio e Prudenzio, oppure mediante fuoco, secondo San Damaso. L’inno ambrosiano “Agnes beatae virginia” pone in rilievo la cura prestata dalla santa nel coprire il suo verginale corpo con le vesti ed il candido viso con la mano mentre si accasciava al suolo, mentre invece la tradizione riportata da Damaso vuole che ella si sia coperta con le sue abbondanti chiome. Il martirio di Sant’Agnese è inoltre correlato al suo proposito di verginità. La Passione e Prudenzio soggiungono l’episodio dell’esposizione della ragazza per ordine del giudice in un postribolo, da cui uscì miracolosamente incontaminata.
Assai articolata è anche la storia delle reliquie della piccola martire: il suo corpo venne inumato nella galleria di un cimitero cristiano sulla sinistra della via Nomentana. In seguito sulla sua tomba Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece edificare una piccola basilica in ringraziamento per la sua guarigione ed alla sua morte volle essere sepolta nei pressi della tomba. Accanto alla basilica sorse uno dei primi monasteri romani di vergini consacrate e fu ripetutamente rinnovata ed ampliata. L’adiacente cimitero fu scoperto ed esplorato metodicamente a partire dal 1865. Il cranio della santa martire fu posto dal secolo IX nel “Sancta Sanctorum”, la cappella papale del Laterano, per essere poi traslato da papa Leone XIII nella chiesa di Sant’Agnese in Agone, che sorge sul luogo presunto del postribolo ove fu esposta. Tutto il resto del suo corpo riposa invece nella basilica di Sant’Agnese fuori le mura in un’urna d’argento commissionata da Paolo V.
Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, nella suddetta opera “De Virginibus” scrisse al riguardo della festa della santa: “Quest'oggi è il natale di una vergine, imitiamone la purezza. E’ il natale di una martire, immoliamo delle vittime. E’ il natale di Sant’Agnese, ammirino gli uomini, non disperino i piccoli, stupiscano le maritate, l'imitino le nubili... La sua consacrazione è superiore all’età, la sua virtù superiore alla natura: così che il suo nome mi sembra non esserle venuto da scelta umana, ma essere predizione del martirio, un annunzio di ciò ch'ella doveva essere. Il nome stesso di questa vergine indica purezza. La chiamerò martire: ho detto abbastanza... Si narra che avesse tredici anni allorché soffrì il martirio. La crudeltà fu tanto più detestabile in quanto che non si risparmiò neppure sì tenera età; o piuttosto fu grande la potenza della fede, che trova testimonianza anche in siffatta età. C’era forse posto a ferita in quel corpicciolo? Ma ella che non aveva dove ricevere il ferro, ebbe di che vincere il ferro. […] Eccola intrepida fra le mani sanguinarie dei carnefici, eccola immobile fra gli strappi violenti di catene stridenti, eccola offrire tutto il suo corpo alla spada del furibondo soldato, ancora ignara di ciò che sia morire, ma pronta, s’è trascinata contro voglia agli altari idolatri, a tendere, tra le fiamme, le mani a Cristo, e a formare sullo stesso rogo sacrilego il segno che è il trofeo del vittorioso Signore... Non così sollecita va a nozze una sposa, come questa vergine lieta della sua sorte, affrettò il passo al luogo del supplizio. Mentre tutti piangevano, lei sola non piangeva. Molti si meravigliavano che con tanta facilità donasse prodiga, come se già fosse morta, una vita che non aveva ancora gustata. Erano tutti stupiti che già rendesse testimonianza alla divinità lei che per l'età non poteva ancora disporre di sé... Quante domande la sollecitarono per sposa! Ma ella diceva: "È fare ingiuria allo sposo desiderare di piacere ad altri. Mi avrà chi per primo mi ha scelta: perché tardi, o carnefice? Perisca questo corpo che può essere bramato da occhi che non voglio". Si presentò, pregò, piegò la testa... Ecco pertanto in una sola vittima un doppio martirio, di purezza e di religione. Ed ella rimase vergine e ottenne il martirio”. (tratto da De Virginibus, 1. 1)
SANT'AGNESE
Agnese nacque a Roma da genitori cristiani, di una illustre famiglia patrizia, nel III secolo. Quando era ancora dodicenne, scoppiò una persecuzione e molti furono i fedeli che s'abbandonavano alla defezione. Agnese, che aveva deciso di offrire al Signore la sua verginità, fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto. Fu esposta nuda al Circo Agonale, nei pressi dell'attuale piazza Navona. Un uomo che cercò di avvicinarla cadde morto prima di poterla sfiorare e altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni, fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell'iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio. La data della morte non è certa, qualcuno la colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall'imperatore Decio, altri nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano. In data odierna, 21 gennaio, il Calendario liturgico romano fa memoria della santa vergine Agnese, la cui antichità del culto presso la Chiesa latina è attestata dalla presenza del suo nome nel Canone Romano (odierna Preghiere Eucaristica I), accanto a quelli di altre celebri martiri: Lucia, Cecilia, Agata, Anastasia, Perpetua e Felicita.
Nulla sappiamo della famiglia di origine di Sant’Agnese, popolare martire romana. La parola “Agnese”, traduzione dell’aggettivo greco “pura” o “casta”, fu usato forse simbolicamente come soprannome per esplicare le sue qualità. Visse in un periodo in cui era illecito professare pubblicamente la fede cristiana. Secondo il parere di alcuni storici Agnese avrebbe versato il sangue il 21 gennaio di un anno imprecisato, durante la persecuzione di Valeriano (258-260), ma secondo altri, con ogni probabilità ciò sarebbe avvenuto durante la persecuzione dioclezianea nel 304. Durante la persecuzione perpetrata dall’imperatore Diocleziano, infatti, i cristiani furono uccisi così in gran numero tanto da meritare a tale periodo l’appellativo di “era dei martiri” e subirono ogni sorta di tortura.
Anche alla piccola Agnese toccò subire subire una delle tante atroci pene escogitate dai persecutori. La sua leggendaria Passio, falsamente attribuita al milanese Sant’Ambrogio, essendo posteriore al secolo V ha perciò scarsa autorità storica. Della santa vergine si trovano notizie, seppure vaghe e discordanti, nella “Depositio Martyrum” del 336, più antico calendario della Chiesa romana, nel martirologio cartaginese del VI secolo, in “De Virginibus” di Sant’Ambrogio del 377, nell’ode 14 del “Peristefhanòn” del poeta spagnolo Prudenzio ed infine in un carme del papa San Damaso, ancora oggi conservato nella lapide originale murata nella basilica romana di Sant’Agnese fuori le mura. Dall’insieme di tutti questi numerosi dati si può ricavare che Agnese fu messa a morte per la sua forte fede ed il suo innato pudore all’età di tredici anni, forse per decapitazione come asseriscono Ambrogio e Prudenzio, oppure mediante fuoco, secondo San Damaso. L’inno ambrosiano “Agnes beatae virginia” pone in rilievo la cura prestata dalla santa nel coprire il suo verginale corpo con le vesti ed il candido viso con la mano mentre si accasciava al suolo, mentre invece la tradizione riportata da Damaso vuole che ella si sia coperta con le sue abbondanti chiome. Il martirio di Sant’Agnese è inoltre correlato al suo proposito di verginità. La Passione e Prudenzio soggiungono l’episodio dell’esposizione della ragazza per ordine del giudice in un postribolo, da cui uscì miracolosamente incontaminata.
Assai articolata è anche la storia delle reliquie della piccola martire: il suo corpo venne inumato nella galleria di un cimitero cristiano sulla sinistra della via Nomentana. In seguito sulla sua tomba Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece edificare una piccola basilica in ringraziamento per la sua guarigione ed alla sua morte volle essere sepolta nei pressi della tomba. Accanto alla basilica sorse uno dei primi monasteri romani di vergini consacrate e fu ripetutamente rinnovata ed ampliata. L’adiacente cimitero fu scoperto ed esplorato metodicamente a partire dal 1865. Il cranio della santa martire fu posto dal secolo IX nel “Sancta Sanctorum”, la cappella papale del Laterano, per essere poi traslato da papa Leone XIII nella chiesa di Sant’Agnese in Agone, che sorge sul luogo presunto del postribolo ove fu esposta. Tutto il resto del suo corpo riposa invece nella basilica di Sant’Agnese fuori le mura in un’urna d’argento commissionata da Paolo V.
Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, nella suddetta opera “De Virginibus” scrisse al riguardo della festa della santa: “Quest'oggi è il natale di una vergine, imitiamone la purezza. E’ il natale di una martire, immoliamo delle vittime. E’ il natale di Sant’Agnese, ammirino gli uomini, non disperino i piccoli, stupiscano le maritate, l'imitino le nubili... La sua consacrazione è superiore all’età, la sua virtù superiore alla natura: così che il suo nome mi sembra non esserle venuto da scelta umana, ma essere predizione del martirio, un annunzio di ciò ch'ella doveva essere. Il nome stesso di questa vergine indica purezza. La chiamerò martire: ho detto abbastanza... Si narra che avesse tredici anni allorché soffrì il martirio. La crudeltà fu tanto più detestabile in quanto che non si risparmiò neppure sì tenera età; o piuttosto fu grande la potenza della fede, che trova testimonianza anche in siffatta età. C’era forse posto a ferita in quel corpicciolo? Ma ella che non aveva dove ricevere il ferro, ebbe di che vincere il ferro. […] Eccola intrepida fra le mani sanguinarie dei carnefici, eccola immobile fra gli strappi violenti di catene stridenti, eccola offrire tutto il suo corpo alla spada del furibondo soldato, ancora ignara di ciò che sia morire, ma pronta, s’è trascinata contro voglia agli altari idolatri, a tendere, tra le fiamme, le mani a Cristo, e a formare sullo stesso rogo sacrilego il segno che è il trofeo del vittorioso Signore... Non così sollecita va a nozze una sposa, come questa vergine lieta della sua sorte, affrettò il passo al luogo del supplizio. Mentre tutti piangevano, lei sola non piangeva. Molti si meravigliavano che con tanta facilità donasse prodiga, come se già fosse morta, una vita che non aveva ancora gustata. Erano tutti stupiti che già rendesse testimonianza alla divinità lei che per l'età non poteva ancora disporre di sé... Quante domande la sollecitarono per sposa! Ma ella diceva: "È fare ingiuria allo sposo desiderare di piacere ad altri. Mi avrà chi per primo mi ha scelta: perché tardi, o carnefice? Perisca questo corpo che può essere bramato da occhi che non voglio". Si presentò, pregò, piegò la testa... Ecco pertanto in una sola vittima un doppio martirio, di purezza e di religione. Ed ella rimase vergine e ottenne il martirio”. (tratto da De Virginibus, 1. 1)
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Re: Il Santo del giorno
Convertirsi è girarsi verso la Luce
III domenica Tempo ordinario, a cura di Ermes Ronchi
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (...)
Siamo al momento fresco, sorgivo del Vangelo. C'è una bella notizia che inizia a correre per la Galilea ed è questa: il tempo è compiuto, il regno di Dio è qui. Il tempo è compiuto, come quando si compiono per una donna i giorni del parto. E nasce, viene alla luce il Regno di Dio. Gesù non spiega il Regno, lo mostra con il suo primo agire: libera, guarisce, perdona, toglie barriere, ridona pienezza di relazione a tutti, anche a quelli marchiati dall'esclusione. Il Regno è guarigione dal male di vivere, fioritura della vita in tutte le sue forme.
A questo movimento discendente, di pura grazia, Gesù chiede una risposta: convertitevi e credete nel Vangelo. Immagino la conversione come il moto del girasole, che alza la corolla ogni mattino all'arrivo del sole, che si muove verso la luce: «giratevi verso la luce perché la luce è già qui».
Credere nel Vangelo è un atto che posso compiere ogni mattino, ad ogni risveglio. Fare memoria di una bella notizia: Dio è più vicino oggi di ieri, è all'opera nel mondo, lo sta trasformando. E costruire la giornata non tenendo gli occhi bassi, chini sui problemi da affrontare, ma alzando il capo, sollevandolo verso la luce, verso il Signore che dice: sono con te, non ti lascio più, ti voglio bene.
Credete nel Vangelo. Non al Vangelo ma nel Vangelo. Non solo ritenerlo vero, ma entrate e buttarsi dentro, costruirvi sopra la vita, con una fiducia che non darò più a nient'altro e a nessun altro.
Camminando lungo il mare di Galilea, Gesù vide… Gesù vede Simone e in lui intuisce la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d'amore. Un giorno guarderà l'adultera e in lei vedrà la donna capace di amare bene. Il suo sguardo è creatore.
Il maestro guarda anche me, e nonostante i miei inverni vede grano che germina, una generosità che non sapevo di avere, capacità che non conoscevo. È la totale fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano.
Seguitemi, venite dietro a me. Non si dilunga in spiegazioni o motivazioni, perché il motivo è lui, che ti mette il Regno appena nato fra le mani. E lo dice con una frase inedita, un po' illogica: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: «vi farò cercatori di tesori». Mio e vostro tesoro è l'uomo. Li tirerete fuori dall'oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che l'uomo, pur con la sua pesantezza, è fatto per un'altra respirazione, un'altra aria, un'altra luce.
Venite dietro a me, andate verso gli uomini. Avere passione per Cristo, che passa e si lascia dietro larghi sorsi di vita; avere passione per l'uomo e dilatare gli spazi che respira.
(Letture: Giona 3, 1-5.10; Salmo 24/25; 1 Corinzi 7, 29-31; Marco 1, 14-20)
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A questo movimento discendente, di pura grazia, Gesù chiede una risposta: convertitevi e credete nel Vangelo. Immagino la conversione come il moto del girasole, che alza la corolla ogni mattino all'arrivo del sole, che si muove verso la luce: «giratevi verso la luce perché la luce è già qui».
Credere nel Vangelo è un atto che posso compiere ogni mattino, ad ogni risveglio. Fare memoria di una bella notizia: Dio è più vicino oggi di ieri, è all'opera nel mondo, lo sta trasformando. E costruire la giornata non tenendo gli occhi bassi, chini sui problemi da affrontare, ma alzando il capo, sollevandolo verso la luce, verso il Signore che dice: sono con te, non ti lascio più, ti voglio bene.
Credete nel Vangelo. Non al Vangelo ma nel Vangelo. Non solo ritenerlo vero, ma entrate e buttarsi dentro, costruirvi sopra la vita, con una fiducia che non darò più a nient'altro e a nessun altro.
Camminando lungo il mare di Galilea, Gesù vide… Gesù vede Simone e in lui intuisce la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d'amore. Un giorno guarderà l'adultera e in lei vedrà la donna capace di amare bene. Il suo sguardo è creatore.
Il maestro guarda anche me, e nonostante i miei inverni vede grano che germina, una generosità che non sapevo di avere, capacità che non conoscevo. È la totale fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano.
Seguitemi, venite dietro a me. Non si dilunga in spiegazioni o motivazioni, perché il motivo è lui, che ti mette il Regno appena nato fra le mani. E lo dice con una frase inedita, un po' illogica: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: «vi farò cercatori di tesori». Mio e vostro tesoro è l'uomo. Li tirerete fuori dall'oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che l'uomo, pur con la sua pesantezza, è fatto per un'altra respirazione, un'altra aria, un'altra luce.
Venite dietro a me, andate verso gli uomini. Avere passione per Cristo, che passa e si lascia dietro larghi sorsi di vita; avere passione per l'uomo e dilatare gli spazi che respira.
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SAN VICENZO DI SARAGOZZA
Vincenzo, secondo la tradizione più attendibile, nacque ad Huesca, alle propaggini dei Pirenei, ma anche le città spagnole di Valencia e Saragozza ne rivendicano la nascita. Di nobile famiglia, figlio del console Eutichio e della matrona Enola, Vincenzo ebbe un’educazione pari al suo stato: destinato alle lettere, venne ben presto affidato dal padre a Valerio, vescovo di Saragozza, perché provvedesse alla sua formazione spirituale. Il vescovo lo nominò diacono, considerandolo suo braccio destro ed affidandogli anche il compito di predicare in sua vece, essendo egli balbuziente. Intanto Diocleziano scatenava la persecuzione contro i cristiani; gli editti dell’imperatore imponevano la distruzione di edifici, libri ed arredi sacri. I cristiani che ricoprivano cariche pubbliche sarebbero stati esautorati e sottoposti a torture e tutti i sudditi dell’impero, prima di compiere una qualsiasi azione pubblica, dovevano offrire sacrifici agli dèi. In questo clima terribile il vescovo Valerio e il diacono Vincenzo non si sottrassero ai loro doveri continuando a testimoniare la loro fede e Daciano, prefetto della provincia spagnola nella quale vivevano, ordinò il loro arresto. Quando se li trova davanti capisce che il vero nemico da combattere è il diacono Vincenzo. Manda così il vescovo in esilio e concentra tutte le sue arti persecutorie su Vincenzo, che, oltre ad essere un gran oratore, è anche un uomo che non si piega facilmente. “Vi stancherete prima voi a tormentarci – dice al governatore – che noi a soffrire”; questo manda in bestia il persecutore, che vede così messa in crisi la sua autorità e il suo prestigio. Vincenzo è una di quelle persone che si piegano ma non si spezzano: prima lo fa fustigare e torturare; poi lo condanna alla pena del cavalletto, da cui esce con le ossa slogate; infine lo fa arpionare con uncini di ferro. Così tumefatto e slogato lo fa gettare in una cella buia, interamente cosparsa di cocci taglienti. Nella notte Vincenzo ha una visione di angeli che gli assicurano che il suo ingresso in cielo è prossimo. I cocci di terracotta, miracolosamente, si trasformano in petali di rosa per cui Vincenzo si alza e, passeggiando nella cella divenuta luminosa, si mette a cantare. Daciano si rende conto che quella è una voce da far zittire in fretta, visto che qualcuno si è già convertito vedendolo così forte nella fede. Vincenzo muore il 22 gennaio dell’anno 304. Daciano per sbarazzarsi del cadavere dovette sudare: gettato in pasto alle bestie selvatiche, il suo corpo fu alacremente difeso da un corvo; venne, allora, gettato in mare, legato a una pietra. Ma le onde riportarono il corpo sulla spiaggia, dove venne recuperato e poi sepolto in una cappella, dove riposò fino al 1173. In quell’anno, re Alfonso I del Portogallo, fece traslare le spoglie del Santo in una chiesa a Lisbona a lui dedicata. Duecento anni dopo, alcune delle sue reliquie furono portate all’Abbazia delle Tre Fontane, di cui divenne contitolare insieme con S. Anastasio. Protettore in particolare degli orfani, delle vedove e dei poveri, S. Vincenzo porta un nome che, da Vincens, è simbolo e un augurio di vittoria. Vincenzo è il vincente, colui che vince il male, qualunque esso sia. S. Vincenzo (São Vicente) è patrono di Lisbona. Lo stemma della città raffigura la nave che trasportò i resti mortali di S. Vincenzo, dall’Algarve a Lisbona, governata, a poppa e a prua, da due corvi che vegliano sulle reliquie del santo. S. Vincenzo è fra i martiri maggiormente conosciuti e venerati nel mondo cattolico e il suo culto, sin dai tempi più remoti, si è tramandato in molti paesi e non solo della Spagna sua patria. A tal proposito Agostino scriveva: “Qual è oggi la contrada, qual è la provincia dove si estendono l’impero romano e il nome di Cristo che non celebri con gioia l’anniversario del martirio di San Vincenzo?”. Ancora Agostino, dal 410 al 413 ogni 22 gennaio pronunciava, dalla basilica Restituta di Cartagine, discorsi in onore del diacono martire Vincenzo. S. Vincenzo si festeggia ancora il 22 gennaio in diverse località dell’Europa, dell’Africa e perfino delle lontane Americhe. In Italia 91 tra parrocchie e chiese venerano il suo nome; sin dal ’300 è protettore della città di Vicenza che, secondo una vecchia leggenda, ne porta il nome.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (...)
Siamo al momento fresco, sorgivo del Vangelo. C'è una bella notizia che inizia a correre per la Galilea ed è questa: il tempo è compiuto, il regno di Dio è qui. Il tempo è compiuto, come quando si compiono per una donna i giorni del parto. E nasce, viene alla luce il Regno di Dio. Gesù non spiega il Regno, lo mostra con il suo primo agire: libera, guarisce, perdona, toglie barriere, ridona pienezza di relazione a tutti, anche a quelli marchiati dall'esclusione. Il Regno è guarigione dal male di vivere, fioritura della vita in tutte le sue forme.
A questo movimento discendente, di pura grazia, Gesù chiede una risposta: convertitevi e credete nel Vangelo. Immagino la conversione come il moto del girasole, che alza la corolla ogni mattino all'arrivo del sole, che si muove verso la luce: «giratevi verso la luce perché la luce è già qui».
Credere nel Vangelo è un atto che posso compiere ogni mattino, ad ogni risveglio. Fare memoria di una bella notizia: Dio è più vicino oggi di ieri, è all'opera nel mondo, lo sta trasformando. E costruire la giornata non tenendo gli occhi bassi, chini sui problemi da affrontare, ma alzando il capo, sollevandolo verso la luce, verso il Signore che dice: sono con te, non ti lascio più, ti voglio bene.
Credete nel Vangelo. Non al Vangelo ma nel Vangelo. Non solo ritenerlo vero, ma entrate e buttarsi dentro, costruirvi sopra la vita, con una fiducia che non darò più a nient'altro e a nessun altro.
Camminando lungo il mare di Galilea, Gesù vide… Gesù vede Simone e in lui intuisce la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d'amore. Un giorno guarderà l'adultera e in lei vedrà la donna capace di amare bene. Il suo sguardo è creatore.
Il maestro guarda anche me, e nonostante i miei inverni vede grano che germina, una generosità che non sapevo di avere, capacità che non conoscevo. È la totale fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano.
Seguitemi, venite dietro a me. Non si dilunga in spiegazioni o motivazioni, perché il motivo è lui, che ti mette il Regno appena nato fra le mani. E lo dice con una frase inedita, un po' illogica: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: «vi farò cercatori di tesori». Mio e vostro tesoro è l'uomo. Li tirerete fuori dall'oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che l'uomo, pur con la sua pesantezza, è fatto per un'altra respirazione, un'altra aria, un'altra luce.
Venite dietro a me, andate verso gli uomini. Avere passione per Cristo, che passa e si lascia dietro larghi sorsi di vita; avere passione per l'uomo e dilatare gli spazi che respira.
(Letture: Giona 3, 1-5.10; Salmo 24/25; 1 Corinzi 7, 29-31; Marco 1, 14-20)
SAN VICENZO DI SARAGOZZA
Vincenzo, secondo la tradizione più attendibile, nacque ad Huesca, alle propaggini dei Pirenei, ma anche le città spagnole di Valencia e Saragozza ne rivendicano la nascita. Di nobile famiglia, figlio del console Eutichio e della matrona Enola, Vincenzo ebbe un’educazione pari al suo stato: destinato alle lettere, venne ben presto affidato dal padre a Valerio, vescovo di Saragozza, perché provvedesse alla sua formazione spirituale. Il vescovo lo nominò diacono, considerandolo suo braccio destro ed affidandogli anche il compito di predicare in sua vece, essendo egli balbuziente. Intanto Diocleziano scatenava la persecuzione contro i cristiani; gli editti dell’imperatore imponevano la distruzione di edifici, libri ed arredi sacri. I cristiani che ricoprivano cariche pubbliche sarebbero stati esautorati e sottoposti a torture e tutti i sudditi dell’impero, prima di compiere una qualsiasi azione pubblica, dovevano offrire sacrifici agli dèi. In questo clima terribile il vescovo Valerio e il diacono Vincenzo non si sottrassero ai loro doveri continuando a testimoniare la loro fede e Daciano, prefetto della provincia spagnola nella quale vivevano, ordinò il loro arresto. Quando se li trova davanti capisce che il vero nemico da combattere è il diacono Vincenzo. Manda così il vescovo in esilio e concentra tutte le sue arti persecutorie su Vincenzo, che, oltre ad essere un gran oratore, è anche un uomo che non si piega facilmente. “Vi stancherete prima voi a tormentarci – dice al governatore – che noi a soffrire”; questo manda in bestia il persecutore, che vede così messa in crisi la sua autorità e il suo prestigio. Vincenzo è una di quelle persone che si piegano ma non si spezzano: prima lo fa fustigare e torturare; poi lo condanna alla pena del cavalletto, da cui esce con le ossa slogate; infine lo fa arpionare con uncini di ferro. Così tumefatto e slogato lo fa gettare in una cella buia, interamente cosparsa di cocci taglienti. Nella notte Vincenzo ha una visione di angeli che gli assicurano che il suo ingresso in cielo è prossimo. I cocci di terracotta, miracolosamente, si trasformano in petali di rosa per cui Vincenzo si alza e, passeggiando nella cella divenuta luminosa, si mette a cantare. Daciano si rende conto che quella è una voce da far zittire in fretta, visto che qualcuno si è già convertito vedendolo così forte nella fede. Vincenzo muore il 22 gennaio dell’anno 304. Daciano per sbarazzarsi del cadavere dovette sudare: gettato in pasto alle bestie selvatiche, il suo corpo fu alacremente difeso da un corvo; venne, allora, gettato in mare, legato a una pietra. Ma le onde riportarono il corpo sulla spiaggia, dove venne recuperato e poi sepolto in una cappella, dove riposò fino al 1173. In quell’anno, re Alfonso I del Portogallo, fece traslare le spoglie del Santo in una chiesa a Lisbona a lui dedicata. Duecento anni dopo, alcune delle sue reliquie furono portate all’Abbazia delle Tre Fontane, di cui divenne contitolare insieme con S. Anastasio. Protettore in particolare degli orfani, delle vedove e dei poveri, S. Vincenzo porta un nome che, da Vincens, è simbolo e un augurio di vittoria. Vincenzo è il vincente, colui che vince il male, qualunque esso sia. S. Vincenzo (São Vicente) è patrono di Lisbona. Lo stemma della città raffigura la nave che trasportò i resti mortali di S. Vincenzo, dall’Algarve a Lisbona, governata, a poppa e a prua, da due corvi che vegliano sulle reliquie del santo. S. Vincenzo è fra i martiri maggiormente conosciuti e venerati nel mondo cattolico e il suo culto, sin dai tempi più remoti, si è tramandato in molti paesi e non solo della Spagna sua patria. A tal proposito Agostino scriveva: “Qual è oggi la contrada, qual è la provincia dove si estendono l’impero romano e il nome di Cristo che non celebri con gioia l’anniversario del martirio di San Vincenzo?”. Ancora Agostino, dal 410 al 413 ogni 22 gennaio pronunciava, dalla basilica Restituta di Cartagine, discorsi in onore del diacono martire Vincenzo. S. Vincenzo si festeggia ancora il 22 gennaio in diverse località dell’Europa, dell’Africa e perfino delle lontane Americhe. In Italia 91 tra parrocchie e chiese venerano il suo nome; sin dal ’300 è protettore della città di Vicenza che, secondo una vecchia leggenda, ne porta il nome.
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Re: Il Santo del giorno
SANT'EMERIZIANA
Un ignoto autore del sec. V aggiunse alla passio latina di s. Agnese, scritta dallo pseudo-Ambrogio, un terzo capitolo che si dilunga sui funerali della santa, sulla sua apparizione ai genitori, otto giorni dopo la morte, e sulla fondazione della basilica in suo onore da parte di Costanza, figlia di Costantino.
Tra i fedeli accorsi ai funerali di Agnese è ricordata anche "Emerentiana, quae fuerat collactanea eius, virgo sanctissima, licet cathecumena". Un'improvvisa aggressione da parte di pagani fanatici disperse i cristiani. Emerenziana, invece di fuggire, apostrofò coraggiosamente gli assalitori, finendo però lapidata. I genitori di s. Agnese ne seppellirono il corpo nei pressi: "in confinio agelli beatissimae virginis Agnetis", cioè sui limiti della loro proprietà. Non c'è dubbio, conclude l'autore, enunciando la dottrina sul Battesimo di sangue, che Emerenziana sia stata battezzata nel suo sangue, essendo morta per la difesa della giustizia, confessando il Signore. Purtroppo però tutto il terzo capitolo della passio Agnetis è giudicato assai severamente dalla critica. Ignorato da s. Massimo di Torino (423), che pur utilizza largamente la passio, e pieno di inesattezze sull'epoca di Costantino, 3i rivela manifestamente opera tardiva e cervellotica.
Gli unici elementi del racconto relativi ad Emerenziana per altra via documentabili sono il nome della santa, il suo martirio, quale che ne sia stata la forma, la sua sepoltura nei pressi del sepolcro di s. Agnese. Secondo parecchi critici un altro elemento ancora potrebbe essere accettato, sia pure con riserva, che cioè la santa fosse davvero ancora catecumena allorché fu uccisa. Esso infatti non fa parte del solito repertorio dei fabbricanti di passiones e potrebbe ben essere l'eco d'una ininterrotta tradizione. Una determinazione cronologica del martirio è impossibile. Di solito si pensa all'epoca di Diocleziano.
Indipendentemente dalla passio, e prima di essa, E. è con sicurezza attestata dal Martirologio Geronimiano che nella sua redazione più antica la ricorda in un gruppo di martiri del Coemeterium Maius sulla Via Nomentana e da un'epigrafe proveniente dallo stesso cimitero.
Il Geronimiano al 16 settembre reca: "Romae, via Nomentana ad Capream, in cimiterio maiore Victoris, Felicis, Alexandri, Papiae, Emerentianetis"; lo stesso elogio meno qualche nome si ritrova al 20 aprile, ma per una incomprensibile migrazione. L'epigrafe, trovata mutila dal De Rossi presso Ponte Rotto e solo recentemente completata del frammento mancante ritrovato negli scavi del Coemeterium Maius, fa eco alla commemorazione liturgica del martirologio.
Emerenziana non sembra avere una posizione di particolare rilievo nel gruppo che fa capo a Vittore. È solo sotto l'influsso della passio che viene ad acquistarvi una preminenza, proprio perché unita alla martire Agnese della cui straordinaria popolarità partecipa. Un segno evidente del cambiamento si ha nella istituzione di una speciale commemorazione liturgica in onore di Emerenziana al 23 gennaio, due giorni dopo la festa di s. Agnese, avvenuta nel sec. VIII, registrata nel Martirologio di Beda, nei codici tardivi del Geronimiano e nel Sacramentario Gelasiano del sec. VIII, donde poi passò nel Messale e nel Martirologio Romano.
Anche nella iconografia dello stesso Cimitero Maggiore, Emerenziana appare costantemente in gruppo con gli altri martiri nelle raffigurazioni più antiche. Così su due pitture assai guaste e su una transenna votiva scoperte nel 1855 si trovano cinque santi riuniti. Lo stesso doveva essere per l'epigrafe dipinta nell'abside di una cripta del medesimo cimitero, scoperta nel 1873 dall'Armellini e da lui considerata la sepoltura primitiva di Emerenziana, solo perché era riuscito a decifrare soltanto il suo nome tra gli altri completamente sbiaditi. Più tardi, invece, sembra sia stata raffigurata sola, se si deve identificarla nella giovane santa con due devoti ai piedi di una pittura scoperta nel 1933 in un piccolo cubiculum dello stesso cimitero. Nei musaici di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, della prima metà dei sec. VI, Emerenziana splende nella teoria delle vergini tra s. Paolina e s. Daria.
Una riprova dell'awenuto cambiamento si ha negli itinerari del sec. VII, che ricordano Emerenziana in primo luogo tra i martiri del Coemeterium Maius, testimoniando anche della ecclesia o basilica, eretta sul suo sepolcro.
L'Itinerarium Salisburgense, parlando della via Nomentana, reca: "et postea vadis ad orientem, quousque pervenies ad s. Emerenziana martyrem, quae pausat in ecclesia sursum et duo martyres in spelunca deorsum, Victor et Alexander".
E l'Epitome de locis sanctorum: "Basilica s. Agnes... propeque ibi soror eius Emerentiana, in alia tamen basilica dormit. Ibi quoque in singulari ecclesia Constantia Constantini filia requiescit sanctusque Alexander, s. Felicis, s. Papia, s. Victor et alii multi dormiunt .
E la notizia di Guglielmo di Malmesbury: "Iuxta viam s. Agnetis et ecclesia et corpus, in altera ecclesia s. Emerentiana et martyres Alexander, Felix, Papias".
Sul sepolcro della martire che doveva trovarsi all'iniz~o della zona, al livello del suolo, era stata dunque eretta una chiesa e il Liber Pontificalis ci fa sapere che essa fu restaurata da Adriano I (772-95).
Le reliquie di Emerenziana furono trasferite nel sec. IX nella basilica di S. Agnese. Paolo V nel 1615 ordinò un'artistica cassa d'argento, in cui fece racchiudere i corpi delle due sante e che fu collocata sotto l'altare maggiore. Altre chiese in Roma hanno conservato il ricordo della martire: S. Agnese a Piazza Navona, dove le fu dedicato un altare nel 1123; S. Pietro in Vincoli, dove sarebbe conservata la testa; S. Maria in Campitelli, dove si mostra un suo dito. Recentemente le è stata intitolata una nuova grande parrocchia nel quartiere Nomentano. In Spagna, in Germania, a Bruxelles, si pretende di avere sue reliquie. Secondo le Vies des Saints (cit. in bibl.), in Francia, nella regione dell'Anjou, nel sec. XII, esisteva una cappella a lei dedicata che il re Luigi XI dotò di alcune sue reliquie nel 1472. Poiché tardive leggende complicarono il martirio di Emerenziana raccontando che le era stato squarciato il ventre, ella fu invocata, specialmente in Francia, contro il mal di ventre.
Un ignoto autore del sec. V aggiunse alla passio latina di s. Agnese, scritta dallo pseudo-Ambrogio, un terzo capitolo che si dilunga sui funerali della santa, sulla sua apparizione ai genitori, otto giorni dopo la morte, e sulla fondazione della basilica in suo onore da parte di Costanza, figlia di Costantino.
Tra i fedeli accorsi ai funerali di Agnese è ricordata anche "Emerentiana, quae fuerat collactanea eius, virgo sanctissima, licet cathecumena". Un'improvvisa aggressione da parte di pagani fanatici disperse i cristiani. Emerenziana, invece di fuggire, apostrofò coraggiosamente gli assalitori, finendo però lapidata. I genitori di s. Agnese ne seppellirono il corpo nei pressi: "in confinio agelli beatissimae virginis Agnetis", cioè sui limiti della loro proprietà. Non c'è dubbio, conclude l'autore, enunciando la dottrina sul Battesimo di sangue, che Emerenziana sia stata battezzata nel suo sangue, essendo morta per la difesa della giustizia, confessando il Signore. Purtroppo però tutto il terzo capitolo della passio Agnetis è giudicato assai severamente dalla critica. Ignorato da s. Massimo di Torino (423), che pur utilizza largamente la passio, e pieno di inesattezze sull'epoca di Costantino, 3i rivela manifestamente opera tardiva e cervellotica.
Gli unici elementi del racconto relativi ad Emerenziana per altra via documentabili sono il nome della santa, il suo martirio, quale che ne sia stata la forma, la sua sepoltura nei pressi del sepolcro di s. Agnese. Secondo parecchi critici un altro elemento ancora potrebbe essere accettato, sia pure con riserva, che cioè la santa fosse davvero ancora catecumena allorché fu uccisa. Esso infatti non fa parte del solito repertorio dei fabbricanti di passiones e potrebbe ben essere l'eco d'una ininterrotta tradizione. Una determinazione cronologica del martirio è impossibile. Di solito si pensa all'epoca di Diocleziano.
Indipendentemente dalla passio, e prima di essa, E. è con sicurezza attestata dal Martirologio Geronimiano che nella sua redazione più antica la ricorda in un gruppo di martiri del Coemeterium Maius sulla Via Nomentana e da un'epigrafe proveniente dallo stesso cimitero.
Il Geronimiano al 16 settembre reca: "Romae, via Nomentana ad Capream, in cimiterio maiore Victoris, Felicis, Alexandri, Papiae, Emerentianetis"; lo stesso elogio meno qualche nome si ritrova al 20 aprile, ma per una incomprensibile migrazione. L'epigrafe, trovata mutila dal De Rossi presso Ponte Rotto e solo recentemente completata del frammento mancante ritrovato negli scavi del Coemeterium Maius, fa eco alla commemorazione liturgica del martirologio.
Emerenziana non sembra avere una posizione di particolare rilievo nel gruppo che fa capo a Vittore. È solo sotto l'influsso della passio che viene ad acquistarvi una preminenza, proprio perché unita alla martire Agnese della cui straordinaria popolarità partecipa. Un segno evidente del cambiamento si ha nella istituzione di una speciale commemorazione liturgica in onore di Emerenziana al 23 gennaio, due giorni dopo la festa di s. Agnese, avvenuta nel sec. VIII, registrata nel Martirologio di Beda, nei codici tardivi del Geronimiano e nel Sacramentario Gelasiano del sec. VIII, donde poi passò nel Messale e nel Martirologio Romano.
Anche nella iconografia dello stesso Cimitero Maggiore, Emerenziana appare costantemente in gruppo con gli altri martiri nelle raffigurazioni più antiche. Così su due pitture assai guaste e su una transenna votiva scoperte nel 1855 si trovano cinque santi riuniti. Lo stesso doveva essere per l'epigrafe dipinta nell'abside di una cripta del medesimo cimitero, scoperta nel 1873 dall'Armellini e da lui considerata la sepoltura primitiva di Emerenziana, solo perché era riuscito a decifrare soltanto il suo nome tra gli altri completamente sbiaditi. Più tardi, invece, sembra sia stata raffigurata sola, se si deve identificarla nella giovane santa con due devoti ai piedi di una pittura scoperta nel 1933 in un piccolo cubiculum dello stesso cimitero. Nei musaici di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, della prima metà dei sec. VI, Emerenziana splende nella teoria delle vergini tra s. Paolina e s. Daria.
Una riprova dell'awenuto cambiamento si ha negli itinerari del sec. VII, che ricordano Emerenziana in primo luogo tra i martiri del Coemeterium Maius, testimoniando anche della ecclesia o basilica, eretta sul suo sepolcro.
L'Itinerarium Salisburgense, parlando della via Nomentana, reca: "et postea vadis ad orientem, quousque pervenies ad s. Emerenziana martyrem, quae pausat in ecclesia sursum et duo martyres in spelunca deorsum, Victor et Alexander".
E l'Epitome de locis sanctorum: "Basilica s. Agnes... propeque ibi soror eius Emerentiana, in alia tamen basilica dormit. Ibi quoque in singulari ecclesia Constantia Constantini filia requiescit sanctusque Alexander, s. Felicis, s. Papia, s. Victor et alii multi dormiunt .
E la notizia di Guglielmo di Malmesbury: "Iuxta viam s. Agnetis et ecclesia et corpus, in altera ecclesia s. Emerentiana et martyres Alexander, Felix, Papias".
Sul sepolcro della martire che doveva trovarsi all'iniz~o della zona, al livello del suolo, era stata dunque eretta una chiesa e il Liber Pontificalis ci fa sapere che essa fu restaurata da Adriano I (772-95).
Le reliquie di Emerenziana furono trasferite nel sec. IX nella basilica di S. Agnese. Paolo V nel 1615 ordinò un'artistica cassa d'argento, in cui fece racchiudere i corpi delle due sante e che fu collocata sotto l'altare maggiore. Altre chiese in Roma hanno conservato il ricordo della martire: S. Agnese a Piazza Navona, dove le fu dedicato un altare nel 1123; S. Pietro in Vincoli, dove sarebbe conservata la testa; S. Maria in Campitelli, dove si mostra un suo dito. Recentemente le è stata intitolata una nuova grande parrocchia nel quartiere Nomentano. In Spagna, in Germania, a Bruxelles, si pretende di avere sue reliquie. Secondo le Vies des Saints (cit. in bibl.), in Francia, nella regione dell'Anjou, nel sec. XII, esisteva una cappella a lei dedicata che il re Luigi XI dotò di alcune sue reliquie nel 1472. Poiché tardive leggende complicarono il martirio di Emerenziana raccontando che le era stato squarciato il ventre, ella fu invocata, specialmente in Francia, contro il mal di ventre.
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